Venezia
Descrizione Deutsch: Venezia c. 1650 . Incisione su rame 30 x 71 cm, incompleto. Data circa 1650 fonte Hebrew University of Jerusalem e Jewish Jewish and University Library

Gli Inquisitori di Stato / Piero Santin

Problemi di segretezza nei maggiori consigli dello Stato

Il problema della segretezza nella politica veneziana è presente sin dall’istituzione del Consiglio dei Dieci; segreto è il suo rito inquisitorio, il cui raggio d’azione aumenta sempre di più nel corso del ‘500 seguendo una tendenza tipica anche in altri stati europei dell’epoca, segrete frequentemente le denunce nei confronti dei traditori basate sui “raccordi” e sulle “bocche di leone”, e segrete le esecuzioni di eretici, spie nemiche e prigionieri di guerra: le spettacolari esecuzioni pubbliche, infatti, sono riservate a delinquenti comuni e ad alcuni grandi traditori. ”Secretezza”, dunque, fondamento del governo, bene supremo da preservare ad ogni costo che ispira una serie di norme volte, ancora prima del 1539, anno in cui verrà costituita una apposita magistratura, a tutelarla e a punire esemplarmente coloro che non la rispettano. Lo testimonia già, nel primo Quattrocento, il segreto in cui è avvolto il processo, la condanna e lo strangolamento di Francesco Novello da Carrara e dei suoi due figli. Inoltre ciò appare chiaro, come fa notare Paolo Preto, durante il ‘500 nelle affermazioni di Poggio Bracciolini, che sottolinea la segretezza in cui si era svolto il processo al Carmagnola, e successivamente in quelle di un attento politico come Commynes, che evidenzia la facilità del governo veneziano nel mandare al confino le persone solo per semplici sospetti quando si tratta di segreti di Stato.[1] Frequentissime sono le fughe di notizie dal Senato e persino dal Consiglio dei Dieci già nel ‘300 e ‘400, ma tale fenomeno non si arresta nemmeno nei primi decenni del ‘500 quando, impegnata nei durissimi scontri col Turco, con la Lega di Cambrai e con Carlo V, Venezia avrebbe dovuto fare massimo affidamento sulla inviolabilità dei propri organi di governo. A questo serio problema si cerca di rimediare con vari provvedimenti tra il 1449 e il 1550, volti a disciplinare minuziosamente il funzionamento del Senato e del Consiglio dei Dieci per garantire al massimo la segretezza delle loro sedute, anche imponendo ai trasgressori adeguate sanzioni pecuniarie e interdizione dai pubblici incarichi. Provvedimenti comunque inefficaci, tanto che in alcune occasioni si farà ricorso alla magistratura straordinaria. Infatti, tra il 1478 e il 1539, sono frequenti le elezioni di inquisitori o “zonte” che indaghino su questi reati.[2] Nel corso del Seicento non sono rare le indagini su senatori che si teme abbiano portato notizie fuori del consiglio. Ne é testimonianza, per esempio, un passo molto significativo indirizzato al Residente di Mantova Antelmi, nel 1617, in cui si dice che “ le cose tutte, che passano sotto il nostro magistrato, devono proceder, e rimaner sempre sotto profondissimo silenzio, si che non se ne faccia alcuna parte, ne minimo moto con altri, ma si tengano in se medesimo recondite in ogni tempo ”.[3]

 Inquisitori “sopra la propalazion dei pubblici segreti”.

 Decreto di istituzione

“Per molte provisioni che siano sta fatte per questo Consiglio, non si ha potuto ancora far tanto che le più importanti materie trattate nelli Consigli nostri secreti, non siano intese et pubblicate, come da ogni banda se ne ha certa notitia, cosa veramente indegna et di quella grave giattura et danno al stato nostro che esplicar si possi maggiore, o più perniciosa, onde non è lasciar intentato rimedio alcuno, ch’escogitar si possa contro un tanto disordine, et però: L’anderà Parte, che, salva ogni altra deliberatione in questa materia alla presente non repugnante, nel primo Consiglio de X con la zonta, che si farà nel mese prossimo di ottobre, per scrutinio siano eletti, di quelli ch’intrano quomodocumque in esso Consiglio, tre Inquisitori sopra qualunque si potrà presentar di haver contraffatto alle leggi et ordini nostri circa il propalar delli segreti. Nè possino refudar sotto pena di ducati 500, etiam che havessero altro offitio con pena, il quale nondimeno li habbi a restar. Siano per anno uno, et infine di quello possano esser rieletti alli quali sia per autorità di questo Consiglio commesso et dato solenne giuramento di fare diligentissima inquisitione contra tali trasgressori, et quelli essendo tutti tre d’accordo mandar alla legge et condannar, pubblicando sempre nel Maggior Consiglio le condannason, che si faranno. Et ogni loro termination sia et esser debba valida et ferma, come se la fusse fatta per questo consiglio. Se veramente detti Inquisitori non fussero tutti e tre in una opinion, overo se l’occorresse alcun caso sì importante di manifestation de secreti, che li paresse meritar maggior censura dell’ordinaria, formato processo debbano, presentarlo ai capi di questo Consiglio, i quali, sotto debito di sagramento et pena di ducati 1000, siano tenuti, in quel medesimo giorno, venir et proponer a questo Consiglio quanto si haverà, per fare quella giustizia che parerà conveniente. Et la presente Parte sia letta nel primo Consiglio di Pregadi et nell’avvenir sempre nel primo Pregadi di ottobre, et non di meno letta o nono letta, haver debba la sua debita essecutione.” 1539, 20 settembre, in Consiglio dei Dieci.[4]

 

Distinti dagli Inquisitori dei Dieci, organo interno al consiglio con funzione istruttoria e con i quali spesso in passato venivano confusi, vennero da questo istituiti con parte del 20 settembre del 1539 ed eletti annualmente, anche se con alcune interruzioni, con il titolo di Inquisitori “sopra la propalazion dei pubblici segreti”.[5] Erano inizialmente legati strettamente agli Esecutori contro la bestemmia, magistratura istituita il 20 dicembre 1537. Una legge del 1542, infatti, stabiliva che nel caso in cui uno dei loro membri non avesse potuto partecipare ad una seduta doveva essere sostituito da un membro dell’altra magistratura. Fino al 1582 furono eletti indifferentemente tra i membri del Consiglio, della giunta dei Dieci e degli organi ad esso collegati; poi, con l’abolizione della giunta, tra quelli del Consiglio dei Dieci e dei consiglieri del doge. Restavano in carica un anno, potevano essere e furono spesso rieletti per due, tre e quattro anni di seguito; erano tre e in tale numero, ogni anno, furono nominati fino alla caduta della Repubblica, anche se, come vedremo, muteranno il loro nome. Importantissima per l’istituzione di questa magistratura fu, come sottolinea Rinaldo Fulin, la già citata deliberazione presa dal Consiglio dei Dieci il 20 settembre 1539. Era il periodo in cui si stava trattando la pace col Turco, il quale imponeva però delle condizioni troppo dure; per questo motivo l’ambasciatore Tomaso Contarini aveva dovuto lasciare Costantinopoli senza concludere nulla. Allora vi era stato mandato Alvise Badoer con nuove e segrete commissioni , per difendere le quali venne appunto stabilito di eleggere questa nuova magistratura.[6] Nel 1555, 58, 66, 76, 77 i tre Inquisitori non vengono eletti a causa della grande perdita di tempo provocata dalla “longa ballottazione” fatta tra tutti i membri di quel consiglio e la “zonta”.[7] Solamente dal 1588 la modalità della loro elezione venne regolata in maniera definitiva fino alla caduta della Repubblica.[8] Gli Inquisitori sulla propalazion dei pubblici segreti, come già detto, venivano scelti due dal Consiglio dei Dieci e uno tra i Consiglieri ducali, e dal colore della veste erano chiamati “neri” i primi, ”rosso” l’altro. Così anche in questa ristrettissima commissione veniva applicato il sistema veneziano della contrapposizione e collaborazione dei consigli; Dieci e Signoria erano quindi rappresentati in questa magistratura esercitando così un efficace e reciproco controllo politico[9]. Nonostante l’inquisitorato fosse presieduto dal consigliere ducale, il responsabile delle sue attività era comunque il Consiglio dei Dieci, dal quale venivano eletti due dei tre inquisitori. Poiché non potevano operare se non in pieno numero, e spesso le norme contro gli interessati e contro i papalisti avrebbero impedito la loro attività, si eleggeva di solito anche un inquisitore supplente(di rispetto), scelto quasi sempre tra i non papalisti. Tuttavia se, come spesso accadeva, nessuno dei tre inquisitori fosse stato papalista, visti questi sempre con sospetto, l’inquisitore di rispetto poteva venire eletto anche tra loro. La loro elezione avveniva ovviamente a scrutinio segreto, in Consiglio dei Dieci, e venivano scelti i due consiglieri dei Dieci e il consigliere ducale rimasti superiori in “ballotta”.[10] Si radunavano inizialmente nel locale sopra l’ufficio delle Biave(dei grani) destinato agli Esecutori sopra la Bestemmia, poi in una stanza vicina a quella dei Capi del Consiglio dei Dieci. Nella loro stanza le pareti erano coperte di cuoio con borchie d’oro; tre sedili di noce con cuscini di marocchino nero erano affissi al muro e c’era inoltre uno scrittoio di noce molto ampio; sulla sinistra c’era una piccola panca con uno sgabello riservati al segretario oltre a dei grandi armadi in larice molto grossolani. Non c’era una grande attenzione nell’arredamento e questo è sicuramente collegato alla importanza dei problemi che venivano trattati in quel luogo, cosa che si voleva trasmettere anche visivamente. Uniche note di raffinatezza all’interno della stanza erano un dipinto del Tintoretto, rappresentante le quattro Virtù teologali, sul soffitto, una Vergine, forse opera di Raffaello, sopra il tribunale e infine, sulla porta, un quadro del Gambarato con alcuni Santi.[11]Originariamente gli Inquisitori sui segreti di Stato furono indubbiamente un organo strettamente parallelo agli Inquisitori dei Dieci, cioè una commissione inquirente per una determinata e complessa tipologia di problemi. Importantissima modifica fu il portare il numero degli inquisitori a tre (due erano invece i membri delle commissioni inquisitorie costituite fino ad allora), probabilmente dovuta alla necessità di attribuire poteri più decisivi a questo istituto e perciò di garantire un forte contrappeso politico con l’aumento del loro numero. L’importanza di questa magistratura, la necessità di assicurarne una maggiore continuità, fu probabilmente la causa per la quale venne ammessa la rieleggibilità dei suoi membri. Rieleggibilità tuttavia molto limitata dal fatto che gli Inquisitori dovevano essere eletti dal Consiglio dei Dieci, nel quale tutti gli appartenenti scadevano dalla carica annualmente, con contumacia. L’unica possibilità di essere rieletti era quella di essere scelti come Inquisitori un anno tra i Dieci e l’anno dopo tra i Consiglieri ducali. Difficile che questa circostanza si realizzasse nel ’500 quando il patriziato veneziano era si già in decadenza, ma ancora forte e soprattutto numeroso; meno nel ‘700 quando anche il numero dei patrizi era calato notevolmente. Tuttavia, nonostante la tendenza restrittiva, il sistema della costituzione politica veneziana assicurava indirettamente una base ampia e un rinnovamento continuo anche a questo consesso. Una tendenza più restrittiva comunque è chiara sin dalle origini del nuovo inquisitorato.[12] Era un organo scaturito dalle condizioni di guerra continua in cui la Repubblica si trovò coinvolta per molto tempo e quindi non deve meravigliare il fatto che le garanzie formali, che erano state inserite nel processo inquisitorio e sempre rispettate nei processi del Consiglio dei Dieci, fossero notevolmente diminuite, pur restando intatte le garanzie riguardanti i Dieci, gli Inquisitori e il loro complesso sistema di rapporti politici. Tuttavia a causa della sua grande importanza e del suo ruolo, questa magistratura assume sempre più peso, allargando inevitabilmente la sua sfera di influenza, aumentando i propri poteri, rendendo sempre più sommarie e rapide le sue procedure.

La correzione del 1582.

Elemento fondamentale per lo sviluppo e l’aumento di competenze degli Inquisitori fu la crescita di importanza nel ’500 di una magistratura, il Consiglio dei Dieci, che metteva inevitabilmente in ombra altri importanti organi dello Stato, come il Senato, l’Avogaria di comun e soprattutto la Quarantia criminal che, con la sua procedura pubblica e di tipo accusatorio, aveva garantito massima trasparenza alla giustizia veneziana. Importanti sono due leggi, nel 1530 del Maggior Consiglio e nel 1533 del Consiglio dei Dieci, che attaccarono duramente l’Avogaria, accusandola di eccedere troppo nella indulgenza verso i delinquenti e di concedere troppe impunità.[13] Ma ancora più importante, nel 1546, è l’istituzione di una nuova magistratura, i”contraddittori”, che aveva il compito di prendere le parti dei rettori nei casi in cui gli avogadori ne intromettevano, all’interno della quarantia criminal, le sentenze e gli atti secondo loro illegittimi. Era ovviamente un tentativo per frenare tali tendenze degli avogadori e contemporaneamente di far venir meno la fiducia in essi, su cui era fondato il loro ruolo. Per il Senato è più difficile segnalare una demarcazione cronologica che indichi l’aumento di competenze del Consiglio dei Dieci ai suoi danni. Nel corso del ’500 tale consiglio si sovrappone al Senato in settori come la politica estera, su questioni militari e marittime, finanziarie, nei rapporti con i domini da terra e da mar. Anche se il Senato tentava di mantenere vive le proprie prerogative con deliberazioni a volte molto decise, i Dieci aumentarono sempre di più la propria influenza. Ciò provocò una forte ostilità verso tale magistratura che sfocerà nella correzione del 1582-83. Decisivi in tal senso furono due decreti del settembre 1581 e dell’aprile 1582 presi dal Consiglio dei Dieci e dalla Zonta, in favore di personaggi di spicco, con i quali si consentiva loro di partecipare in soprannumero alle proprie sedute. Per tale motivo il Maggior Consiglio aveva reagito rifiutandosi di eleggere la Zonta ordinaria e quindi sopprimendola di fatto. Soppressa così anche la Zonta dei Procuratori di San Marco, il Consiglio dei Dieci veniva riportato alle sue competenze fissate nel 1468.[14] Tuttavia due differenze c’erano, ed importanti: i Dieci potevano ancora continuare ad occuparsi di materie segrete, ma le deliberazioni su di esse dovevano essere fatte dal Senato; inoltre ciò valeva anche per la “promission di denaro e il governo della Cecca”. Forte era quindi il contenimento delle competenze del Consiglio dei Dieci, e ciò comportava inevitabilmente il rafforzamento di una magistratura ad esso strettamente collegata e che potesse, in maniera meno scoperta e quindi più efficace, svolgere il compito di custode del governo della Repubblica; di questo era convinta la parte più influente del patriziato veneziano. Questa magistratura “satellite” erano appunto gli Inquisitori sulla propalazione di pubblici segreti. A segnalarne l’aumento di importanza sarà verso la fine del ‘500 il mutamento di nome da quello originario a Inquisitori di Stato.[15]

 Gli Inquisitori di Stato.

 Evoluzione non solo nel nome, ma anche nelle competenze: la nuova magistratura rispondeva alle esigenze del periodo storico, per questo era divenuta il fulcro della attività del Consiglio dei Dieci, di cui ormai interpretava la volontà in modo spietato, efficace e segreto, sempre però conservando quel particolare rapporto di rappresentanza, di dipendenza e di fiducia. Aumento di competenze, dunque. Innanzi tutto venne allargata la competenza istruttoria dei tre: come era logico la propalazione dei pubblici segreti iniziò a riguardare numerosissimi affari. Forte divenne la vigilanza sui magistrati, sulle loro pratiche, addirittura sui loro contatti personali, in modo da avere una conoscenza profonda di tutti gli affari dello Stato. Era dunque la natura stessa del suo incarico che portò questa magistratura ad allargare la sua competenza a tutti i fatti che potessero turbare la tranquillità e la sicurezza dello Stato. Questa era stata la funzione del Consiglio dei Dieci: si ripropone quindi, all’interno questa volta dello stesso consiglio, quello che aveva prodotto la nascita della stessa magistratura. I tre ben presto oscurarono la più antica commissione istruttoria (i due inquisitori dei Dieci), le cui mansioni e procedure erano ben definite. I tre divennero in pratica la suprema rappresentanza politica del Consiglio dei Dieci, investendo tutto ciò che poteva turbare lo Stato: saranno incaricati, tra l’altro, della vigilanza sul regolare deposito delle scritture e relazioni degli ambasciatori, rettori etc., sull’ordine nei monasteri, sulla repressione del gioco, sull’integrità dei magistrati, sulla eguaglianza civile e sulla modestia del modo di vivere dei patrizi, sulla conservazione dei segreti dell’arte vetraria, etc..[16] Essi saranno in rapporto con i rettori di tutte le città del dominio, che invieranno loro le notizie più delicate. Altrettanto faranno i rappresentanti della Repubblica fuori del dominio, ambasciatori o residenti. Accanto alla collaborazione ufficiale molto importante sarà quella ufficiosa di altri, patrizi e privati, i quali, invitati o di propria spontanea iniziativa, manderanno informazioni riservatissime su cose e persone ritenute meritevoli della attenzione degli Inquisitori. Una rete segreta, in cui avrà un ruolo fondamentale la delazione, che diventerà tipica dell’azione degli Inquisitori e che finirà col costituire, fuori e dentro lo Stato, anche il contrassegno negativo dei metodi della Repubblica. I tre rappresentarono il Consiglio dei Dieci anche nelle sue delicate funzioni di polizia e per questo motivo divennero informatori fondamentali anche per le altre magistrature negli affari che a quelle competevano. Questa evoluzione non coinvolse solamente la sfera politica, ma anche quella delle attribuzioni giudiziarie e delle procedure dei tre. In poco tempo si vide che il loro maggiore formalismo, il loro rapido ed energico modus operandi, avevano ridato efficacia all’azione del Consiglio dei Dieci, al punto che, sebbene il costume dei patrizi peggiorava sempre più e sempre minore era quindi l’affidamento sulla loro incorruttibilità e serietà, presto il segreto di Stato venne di nuovo custodito in maniera efficace, e ogni forma di turbamento prevenuta, più che repressa, con interventi rapidi e tempestivi.

Divenuto comunque il Consiglio dei Dieci troppo numeroso, per garantire la massima tranquillità ai denunciatori venne istituito un archivio separato dei tre Inquisitori, così che la fonte delle denunce segretissime non fosse necessariamente resa nota a tutto il consiglio: tuttavia gli inquisitori, rimasti sempre in stretta dipendenza dal consiglio, nel caso questo avesse voluto prendere conoscenza di un determinato affare, non avrebbero potuto impedirlo in alcun modo. Era questo un rapporto molto delicato, basato esclusivamente sulla consuetudine: da un lato il Consiglio, quando non ci fossero motivazioni particolari, preferiva lasciare agli Inquisitori la custodia dei più gelosi segreti; dall’altra parte gli stessi Inquisitori, educati in un regime aristocratico ma soprattutto poco desiderosi, anche per la breve durata del loro incarico, di assumersi troppe responsabilità e di suscitare delle rivalità, erano soliti usare con molta discrezionalità le loro funzioni. Per questo motivo sempre più frequentemente gli Inquisitori di Stato si videro esplicitamente o tacitamente delegato l’intero processo. Infatti nelle questioni più delicate, basandosi anche su precedenti remotissimi come i già citati Inquisitori dei Dieci, il Consiglio preferiva lasciare ai tre l’intera definizione della faccenda. Questa pratica divenne nel corso del ‘600 sempre più frequente a causa del continuo allarme in cui Venezia viveva. I tre Inquisitori assunsero sempre più la figura di un supremo tribunale politico e autonomo, anche se sempre subordinato al Consiglio dei Dieci, al quale essi affidavano sempre di più, anche con il loro tacito assenso, moltissime pratiche che riguardavano pericoli di turbamento dello Stato, definendole con pieni poteri e pronunciando giudizi che avevano lo stesso valore dei giudizi del Consiglio dei Dieci.[17]

 Aumento delle competenze nel ‘600 e nel ‘700

 Renier Zeno. La correzione del 1628.

Negli anni venti del Seicento, all’interno del patriziato veneziano, assistiamo a un movimento di protesta che ricorda molto da vicino quello del 1582 e del 1583. Anche questa volta la contestazione era diretta contro il monopolio della nobiltà più ricca, contro il Consiglio dei Dieci e la classe di segretari, ed anch’essa era alimentata dal disagio e dalla ribellione dei patrizi più poveri.[18] La contestazione del 1582 aveva sicuramente ridimensionato lo strapotere della Zonta e del Consiglio dei Dieci e aveva inoltre restituito al Senato le sue competenze, ma non era riuscita a porre rimedio ad alcune questioni più importanti, come quella della spaccatura sorta tra la nobiltà che faceva riferimento ai Dieci e quella che invece veniva rappresentata dalla Quarantia criminal: questi organi erano effettivamente separati, senza possibilità per il secondo gruppo di poter entrare nel giro di magistrature, le più importanti per la politica veneziana, che in sostanza potevano essere ricoperte solo dal primo.[19] Era ovvio che un organo con queste prerogative, che rappresentava esclusivamente una parte limitata del patriziato, venisse accusato di condurre una politica che ledeva gli interessi dell’altra parte della nobiltà. Uno dei motivi di maggior protesta dei contestatori era il ruolo svolto dai segretari all’interno del Consiglio dei Dieci: vi restavano in carica a vita, finendo per conoscerne ogni questione e per diventarne i veri padroni, opponendosi quindi ad ogni azione che potesse limitare l’autorità del Consiglio. Secondo questi patrizi per rimediare a tale situazione bisognava permettere l’ingresso nel Consiglio dei Dieci ai tre capi della Quarantia: questa magistratura, infatti, raccoglieva al suo interno tutte le fasce del patriziato, potendo quindi garantire una maggiore imparzialità. Tuttavia per i nobili privilegiati questa era la soluzione più pericolosa, che avrebbe potuto sconvolgere l’ordinamento aristocratico della Repubblica. Consideravano invece più comprensibili le altre recriminazioni. Innanzi tutto quella che criticava il numero eccessivo delle competenze del Consiglio dei Dieci, spesso costretti ad attribuire alcune di esse ad altre due magistrature, gli esecutori contro la bestemmia e i provveditori sopra i monasteri, che venivano elette dai Dieci senza il controllo del Maggior Consiglio e del Senato, e che erano dotate del suo stesso rito inquisitorio, quindi senza possibilità d’appello. La Quarantia, invece, non solo non poteva eleggere nessuno, ma addirittura non aveva la facoltà di fissare le proprie sedute quando lo riteneva opportuno. Altra protesta era quella contro gli Inquisitori di Stato, anche essi eletti dal Consiglio dei Dieci, ai quali veniva cotestato l’eccessivo potere, che ormai esercitavano, e la durata della loro carica, un anno, che non rispettava i tradizionali principi della Repubblica.[20] Già nel corso del ’600 i malumori per la dilatazione delle materie di cui si occupavano gli Inquisitori e per i loro metodi si erano fatte sentire. Contro le loro sentenze non si poteva ricorrere in appello, e alcune volte venivano eseguite con una rapidità sconcertante. Vi furono tuttavia alcuni casi di chiara ingiustizia, che scossero la fiducia in questo tipo di procedura. Un grave esempio è quello di Antonio Foscarini; siamo nel 1622, costui è un ambasciatore e uomo di punta, assieme a Nicolò Contarini, del gruppo dei “giovani”, che dopo essere stato accusato di aver venduto dei segreti di stato alla Spagna, viene processato e giustiziato molto rapidamente. Il Consiglio dei Dieci ammise pubblicamente l’errore, restituendo all’accusato l’onore, ma non la vita. In altri casi scandaloso era stato il divario fra le punizioni inflitte a nobili di secondo piano e ai membri delle famiglie più potenti. Fra i nobili più poveri cresceva la sensazione di essere trattati come inferiori da una piccola oligarchia che abusava del proprio potere.[21] Questo malumore sfociò negli attacchi di Renier Zeno contro il doge Giovanni Corner. Era questo un doge molto potente, ricco e popolare, che aveva ottenuto dai Consiglieri ducali e dal Senato il consenso per i suoi figli di occupare contemporaneamente cariche ecclesiastiche e seggi in Senato, contro le leggi della Repubblica. Lo Zeno denunciò il comportamento del doge e dei senatori, attaccando in questo modo anche l’oligarchia che imponeva con metodi drastici il rispetto delle leggi agli altri, ma non a se stessa.[22]

Tentativo di assassinare Renier Zeno.

La vendetta della famiglia Cornaro era attesa, ma nessuno pensava che sarebbe stata così violenta. C’era stata addirittura una aggressione conto lo Zeno, che venne ferito gravemente, rischiando di morire. Zorzi Cornaro, uno dei figli del doge, in accordo probabilmente con un suo cugino, Michele Priuli, e forse con qualcun’altro dei suoi fratelli, avevano messo in atto questa azione criminale. Una sera di dicembre del 1627 il Cornaro si era nascosto con alcuni suoi bravi in un angolo del palazzo ducale, aspettando lo Zeno che avrebbe dovuto passare di lì per raggiungere la sua barca. Lo avevano aggredito a colpi d’accetta, lasciandolo per terra sicuri di averlo ucciso. Zorzi Cornaro, che era stato subito scoperto, aveva subito la condanna al bando totale, la perdita della nobiltà e la confisca dei beni; per questo motivo era stato costretto a rifugiarsi a Ferrara, dove il fratello cardinale poteva assicurargli la protezione della Santa Sede. Renier Zeno, subito soccorso e portato a casa, era riuscito a salvarsi. Lo sdegno per questo atto era stato unanime, non solo tra i suoi seguaci ma tra gli stessi avversari politici.[23]

In questo modo lo Zeno acquistò molta popolarità tra i patrizi più poveri, al punto da essere eletto dal Maggior Consiglio membro dello stesso Consiglio dei Dieci. Da questa posizione lanciò i suoi attacchi più violenti contro il governo. I Dieci si opposero allo Zeno e ne votarono la messa al bando: il 23 luglio 1628 lo Zeno veniva bandito a vita, con una taglia di duemila lire di piccoli, con l’alternativa di una relegazione a Cattaro per sei anni se si fosse presentato subito. Questa condanna appariva sproporzionata, un segno evidente che all’interno dell’ordinamento della Repubblica si potevano verificare delle gravi ingiustizie. Una reazione molto dura c’era stata anche contro il patriziato povero che era insorto. Gli Inquisitori di Stato si erano messi in azione, ed erano riusciti inizialmente a diffondere un pesante clima di sospetto. Addirittura c’era stato un arresto, quello di Gerolamo Donà, un amico dello Zeno, accusato di “frasi sediziose contro il governo”. Tutte queste azioni repressive messe in atto dal governo erano state controproducenti, ed avevano avuto l’unico risultato di irritare ancora di più il patriziato più povero.[24] Per questo il Maggior Consiglio decise di usare, questa volta contro il Consiglio dei Dieci, l’arma usata nel 1583 contro la zonta, cioè il rifiuto di eleggere i candidati ad esso. Venne perciò istituita una commissione per riformare i poteri del Consiglio dei Dieci, e quindi degli Inquisitori.[25] Tra le proposte vi era quella di trasferire la maggioranza dei processi penali, in cui fossero implicati i nobili, dai Dieci alla Quarantia, molto più rappresentativa della classe nobiliare. I cambiamenti proposti dai correttori puntavano esclusivamente a regolare i rapporti tra Consiglio dei Dieci e Maggior Consiglio, riducendo le competenze del primo. I Dieci non avrebbero più potuto revocare le parti del Maggior Consiglio, emanare leggi su materie non di loro competenza, stabilire pene pecuniarie, etc.. Il Maggior Consiglio, invece, avrebbe avuto la facoltà di stabilire le procedure del Consiglio dei Dieci, non però per le materie criminali, e l’Avogaria di comun di garantire sull’esecuzione delle leggi riguardanti i Dieci. Tale magistratura manteneva comunque la competenza per i reati commessi dai nobili, sui bravi e sui loro padroni, sui falsi monetari, sugli attentatori alla sicurezza dello stato e sugli ecclesiastici.[26] Altre norme miravano a ridurre l’influenza dei segretari dei Dieci, che secondo loZeno erano i veri rettori del tribunale, grazie alla loro esperienza procedurale ed al controllo sulle pratiche. Infatti verrà deciso di rimettere al Senato la loro elezione e di lasciarli in quella carica per un anno.[27]

Presidente della commissione era Niccolò Contarini, mentre gli altri quattro correttori erano Piero Bondumier, Zaccaria Sagredo, Antonio Da Ponte e Battista Nani. Il Contarini, secondo la speranza dei nobili ribelli, avrebbe dovuto appoggiare il loro movimento; non era mai stato un nobile ricco, la sua era una famiglia modesta, inoltre era sempre stato ostile al patriziato più potente. Il Contarini, per la sua politica antispagnola e favorevole ad una alleanza con l’Inghilterra, il Duca di Savoia e i protestanti, era stato continuamente appoggiato dai “giovani”, quella parte del patriziato cioè più colta e meno ricca.[28] Mantenendo le attese, il Contarini aveva dato inizialmente il suo appoggio allo Zeno, essendo appunto entrambi propugnatori di una politica antispagnola e antipapale; successivamente però ne aveva preso le distanze quando lo Zeno aveva cercato l’appoggio del clero contro i “corneristi”. Inoltre considerava il suo linguaggio e i suoi metodi pericolosamente sovversivi. Per questo motivo l’opposizione ai corneristi non fu efficace; le uniche riforme che vennero approvate lasciarono pressoché immutate le competenze e le prerogative penali del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori. Quanto ai provveditori sopra i monasteri e gli esecutori contro la bestemmia dovevano essere eletti dal Senato, anche se mantenevano la possibilità di utilizzare il rito del Consiglio dei Dieci; i secondi inoltre avevano la possibilità di farsi delegare dai Dieci il giudizio su alcuni reati compiuti dai nobili.[29] Non venivano tuttavia affrontati i problemi della Quarantia. Queste proposte, che saranno quasi tutte approvate, erano veramente poca cosa difronte alla volontà di rinnovamento espressa dal Maggior Consiglio. I nobili che avevano sostenuto con maggior forza la correzione e che avevano a lungo manifestato il loro malcontento non erano riusciti a far sentire le loro ragioni, manifestando una chiara inferiorità, soprattutto sul piano politico, rispetto ai nobili del Consiglio dei Dieci.[30] Poco incisivi erano stati anche i due patrizi che avrebbero dovuto ricoprire un ruolo chiave nella vicenda: Renier Zeno e Nicolò Contarini. Il primo, che aveva espresso le sue convinzioni lo stesso giorno del suo rientro nella vita politica dopo il bando perpetuo da cui era stato colpito, aveva messo in risalto, come già sottolineato, la potenza occulta dei segretari, l’accentramento nelle loro mani della sorte del Senato e del Consiglio dei Dieci. La loro preparazione giuridica e amministrativa era più solida di quella dei patrizi già all’inizio della loro attività, e la durata delle loro cariche permetteva loro di divenire i veri padroni delle magistrarure. Ma questo accadeva soprattutto nel Consiglio dei Dieci, dove la carica dei segretari era vitalizia. Lo Zeno sottolineava il fatto che essi fossero in sostanza gli unici depositari e conoscitori delle leggi, e interpreti di esse a seconda dei loro interessi. [31]Lo Zeno invece esaltava le qualità della Quarantia Criminale, che secondo lui garantiva effettivamente un giusto svolgimento della giustizia. A tale magistratura dovevano essere lasciate, senza altre limitazioni, le competenze in materia criminale, ricorrendo al Consiglio dei Dieci solo nei casi più gravi, come i reati contro la sicurezza dello stato commessi dai nobili, e abolendo invece le sue magistrarure minori, cioè gli esecutori contro la bestemmia e i provveditori sopra i monasteri. Quello dello Zeno era stato però un discorso che aveva divagato molto su questioni secondarie e di scarsa importanza, e aveva invece trascurato le tematiche più importanti.[32] Nicolò Contarini, trattando i problemi della giustizia penale, aveva limitato le sue osservazioni a semplici considerazioni di ordine puramente pratico e politico. Secondo lui, infatti, quello della giustizia era un problema esclusivamente politico, era solo uno strumento per ottenere maggiore rispetto verso la Repubblica, per assicurare il potere della aristocrazia veneziana.[33] Il vero protagonista della correzione era stato Battista Nani, un esponente della nobiltà più ricca e potente, sostenitore del doge, che aveva compreso che i nobili sollevatisi dovevano essere distinti in radicali e moderati, riuscendo a portare questi ultimi dalla sua parte, sottolineando il carattere nobiliare e l’importanza di esserne investiti. Aveva inoltre evidenziato l’importanza di essere giudicati dal Consiglio dei Dieci, garanzia di una maggior sicurezza nel caso in cui i nobili fossero stati accusati da esponenti del ceto borghese o popolare; ciò avrebbe potuto portare ad una perdita di prestigio, nel caso di un procedimento a loro carico che si fosse svolto presso tribunali di rango inferiore, come giudici della pace, signori di notte, quarantia criminal.[34]

Nel corso dei dibattiti in Maggior Consiglio, la maggior parte dei nobili mostrò di ritenere la giurisdizione penale dei Dieci necessaria per il mantenimento della disciplina e il buon nome della loro classe; la sua segretezza manteneva la fama di Venezia garante di una giustizia uguale per tutti; inoltre, affermavano, era la segretezza stessa che permetteva di colpire anche gli appartenenti alle famiglie più potenti.[35]

Zuanne Sagredo. La correzione del 1677

Un’altra correzione molto importante sarà quella del 1677. Ruolo fondamentale in essa avrà Zuanne Sagredo. Questo patrizio era stato ambasciatore presso le sedi più importanti, a Londra, da Cromwell, in Francia e in Germania. A Venezia era stato membro delle magistrature più influenti, era uno dei migliori politici in Senato e in Maggior Consiglio, era inoltre stato molto vicino al dogado. Il Sagredo era stato eletto tra i cinque membri incaricati della correzione nel 1667. Oltre ai due grandi temi trattati, quello degli abusi compiuti dai privati e la necessità di distribuire le cariche tra i nobili con maggiore accortezza, c’era anche quello del ruolo specifico di alcune magistrature legate alla gestione della giustizia: tra esse, per quella penale, il Consiglio dei Dieci, e quindi gli Inquisitori di Stato, cui erano legati indissolubilmente. Dopo la delusione dalla mancata elezione al dogado, che lo aveva quasi spinto ad abbandonare la politica, venne rieletto come correttore nel 1677.[36] Suo antagonista, anche lui uno dei cinque membri della commissione incaricata della correzione, era Battista Nani, Procuratore di San Marco come il Sagredo, con grande esperienza di ambasciatore. Vennero subito presentate delle leggi sul Consiglio dei Dieci. La prima era del 16 maggio: correggeva la legge del 1671, che aveva introdotto, assieme a quella del 1667, delle restrizioni per l’entrata nei Dieci, e definiva eleggibili in questo consiglio non solo quelli che vi avessero già “posto balla”, ma anche coloro che in passato avessero coperto le cariche di Savio del Consiglio, Capitano Generale da mar, Provveditore Generale in Terraferma, podestà e capitano di Brescia e Padova. Era un tentativo di ammorbidire la posizione molto dura di coloro che si erano opposti alle restrizioni del 1671. Si trattava di un finto allargamento poiché, in pratica, le cariche più importanti passavano a rotazione, senza contumacia, tra i soliti patrizi. La legge non era passata. Era stata riproposta pochi giorni dopo ma con alcune variazioni: la più importante riguardava la costituzione di una contumacia di due anni per essere eletto nuovamente tra i Dieci. Lo scontro questa volta era stato molto aspro: da un lato il Sagredo attaccava violentemente il Consiglio dei Dieci, affermando che bisognava garantire la piena sovranità del Maggior Consiglio e l’uguaglianza di tutta l’aristocrazia, che doveva garantire a tutti l’entrata nelle magistrature e nei consigli e quindi la partecipazione al governo della Repubblica.[37] Il Nani rispondeva all’attacco del Sagredo sottolineando che attraverso le proposte che si volevano approvare si trasformava in legge una consuetudine ormai adottata: nella pratica i Dieci erano sempre eletti tra questi candidati. Inoltre il Nani, a differenza del suo antagonista, considerava questo consiglio il vero custode della Repubblica, la sua base fondamentale. Nonostante questa grande arringa in favore della legge, questa venne nuovamente respinta. Veniva ripresentata nuovamente un mese dopo, questa volta però profondamente modificata. La nuova legge stabiliva che per essere eleggibili in Consiglio dei Dieci bisognava aver fatto parte del Senato ordinario. Inoltre bisognava avere almeno 35 anni. La contumacia, infine, era stata portata a tre anni, rispetto ai due della precedente legge. Unica consolazione per gli sconfitti era l’aver ottenuto di proibire agli eletti di lasciare la carica prima che passasse un anno dalla elezione, a meno che non fossero stati eletti Governatori alle entrate o Provveditori al sale. Mai, nei suoi discorsi, il Sagredo aveva nominato gli Inquisitori di Stato. Lo aveva fatto invece il Nani, anche se in maniera velata, come se fosse il nodo della questione, del quale tutti erano a conoscenza, ma che nessuno nominava esplicitamente. Per lui far entrare nei Dieci membri non all’altezza metteva in pericolo la sicurezza e il corretto funzionamento di questo tribunale, quindi anche dello Stato. In sostanza questa correzione spegnerà gli sforzi di coloro che volevano creare all’interno del Consiglio un corpo oligarchico.[38]

 Angelo Querini. La correzione del 1762

Nel corso del Settecento le competenze dei tre Inquisitori aumentano ancora. Un rafforzamento che tuttavia non significò una svolta in senso oligarchico, come già si era tentato di fare nel corso del Seicento, come abbiamo appena visto, ma che anzi dimostrò come un cambiamento di questo tipo non fosse possibile. Per questo motivo era necessario rafforzare questo organismo, il quale riuscisse a compensare, anche con la repressione, le alterazioni e i logoramenti del sistema veneziano, ormai in piedi da molto tempo, e che raccoglieva al suo interno una vasta e eterogenea schiera di patrizi, molti dei quali senza alcun potere effettivo, senza giustificazioni di natura economica, politica o di prestigio: era solamente la tradizione, che non poteva essere alterata poiché elemento che giustificava la continuità della Repubblica, a mantenerli nell’area di governo. Anche a causa di questo rafforzamento nel corso del ’700 molte delle accuse un tempo rivolte al Consiglio dei Dieci venivano adesso indirizzate agli stessi Inquisitori di Stato. Alcuni patrizi avevano protestato violentemente contro questo tribunale che consideravano tirannico.[39] Un caso eclatante è quello di Angelo Querini, un patrizio non tra i più benestanti.

Siamo agli inizi degli anni sessanta del ’700; questo nobile, eletto avogador di comun, si trovò in contrasto con gli Inquisitori. Molto velocemente lo stesso Querini, aiutato da un altro avogador, Alvise Zen, allargò la questione, lo sfratto di una piccola artigiana, inflitto dagli avogadori e annullato dagli Inquisitori, in un attacco duro contro gli stessi Inquisitori, accusati di aver prevaricato ingiustamente l’avogaria. Ormai trascinato dalle polemiche lo stesso Querini accusò il supremo tribunale di aver abusato delle deleghe di “dubbia” legittimità accordate dal Consiglio dei Dieci per aumentare il proprio potere con metodi polizieschi, sovvertendo le regole stesse della costituzione. Gli Inquisitori persero rapidamente il senso della misura: non seppero circoscrivere la contestazione alle modeste pretese del suo avvio, credettero che attorno al Querini ci fosse, o che almeno si stesse formando, un partito con un programma politico alternativo, pronto a minare le basi delle stesse istituzioni. Ribadendo ancora una volta i loro metodi d’azione, agirono in maniera violenta e precipitosa: la notte del 12 agosto 1761 arrestarono Angelo Querini nel suo appartamento a San Moisè. Subito lo trasferirono, sotto scorta, al castello di Verona in relegazione. Questo era appunto il loro modus operandi, a cui molti erano abituati; tuttavia questa volta la vittima dell’arresto era un avogador di comun. Dato anche che le colpe di cui era accusato erano tutt’altro che chiare, questa operazione colpì fortemente l’opinione pubblica cittadina e finì per avere dei risvolti politici enormi.[40] Si formò contro gli Inquisitori, e quindi contro il Consiglio dei Dieci, un gruppo di patrizi nei quali era perenne il malcontento e che avevano trovato maggiore coesione dopo gli ultimi avvenimenti: si trattava soprattutto di patrizi della fascia mediana, esclusi dal vero potere politico, dei patrizi più poveri e di quelli intellettualmente più vivaci, ispirati anche dalla nuova ventata culturale portata dall’Illuminismo. Queste forze di opposizione riuscirono a fare in modo che non si formasse la maggioranza necessaria per eleggere i membri del Consiglio dei Dieci scaduti dalla carica. Era questa una manovra sperimentata già altre volte; per sbloccare la situazione si creò perciò una commissione di cinque “Correttori”, che controllassero le norme che regolavano i Dieci e gli Inquisitori per vedere se fossero state rispettate e, nel caso in cui lo avessero ritenuto necessario, di correggerle.[41]

Tuttavia i gruppi dirigenti, dopo questo primo momento di debolezza, riuscirono a riprendersi, facendo eleggere, tra i cinque correttori, tre della maggioranza e due della minoranza. I primi tre erano Marco Foscarini, procuratore di San Marco e elemento di spicco della maggioranza, Lorenzo Alessandro Marcello II, capo del Consiglio dei Dieci, e Girolamo Grimani, ex Savio Grande; gli altri due erano Alvise Zen, ex avogador, e Pier Antonio Malipiero, della Quarantia. Diversamente da quello che molti si aspettavano, l’elezione del Querini non avvenne e non fu così possibile nemmeno porre fine alla sua relegazione a Verona. La contestazione del Querini e del gruppo che aveva preso le sue difese era vista come rivendicazione del gruppo dei patrizi “novatori”, cioè di quel gruppo che chiedeva innovazioni e riforme radicali. In realtà quello che volevano era, appoggiandosi su effettive basi storiche, il riacquisto, da parte di alcune magistrature come l’Avogaria e la Quarantia, delle vecchie prerogative che ormai erano state assorbite da altre magistrature come il Consiglio dei Dieci e gli Inquisitori di Stato.[42] Chiedevano quindi il ristabilimento della uguaglianza tra patrizi nella gestione delle istituzioni politiche. Interessante per capire quale ostilità avesse scaturito nei loro confronti tale aumento di competenze è l’impostazione data dai due correttori di minoranza, il Malipiero e lo Zen, alla contestazione. I due puntavano il dito, basandosi su ricostruzioni storiche, sulle deviazioni degli Inquisitori di Stato: era, affermavano, una magistratura recente, che in principio aveva avuto una autorità limitata e una azione circoscritta a casi gravi e evidenti di attacchi alla sicurezza dello Stato, e proprio per questo aveva potuto utilizzare procedure sommarie, segrete, quasi senza garanzie per gli inquisiti; un tribunale che, soprattutto negli ultimi tempi, si era preso di fatto delle competenze che spettavano ad altri organismi, estendendo senza limite la propria azione poliziesca, usando in maniera sempre maggiore metodi terroristici nel suo procedere, al punto che molti degli inquisiti non sapevano nemmeno quale fosse l’accusa nei loro confronti, nè, una volta condannati, quale condanna dovessero scontare.[43] Altra colpa degli Inquisitori, sempre secondo lo Zen e il Malipiero, era quella di colpire patrizi che ricoprivano cariche anche di grande importanza, solo perché avevano idee politiche differenti dalle loro e dai gruppi che li sostenevano.

I correttori della maggioranza, criticando le argomentazioni della opposizione, ribattevano invece che la rigida autorità degli Inquisitori forniva l’immagine di un tribunale la cui giustizia colpiva imparzialmente tutti. Intanto i correttori, nel corso delle loro sedute, riuscirono a trovare un accordo su tutto, tranne che sulla ampiezza della autorità penale e disciplinare del tribunale inquisitorio sui patrizi. Per questo fu inevitabile che i correttori presentassero in Maggior Consiglio due proposte differenti. Quella di maggioranza chiedeva il mantenimento delle competenze dei Dieci come stabilito dalla legislazione precedente, tuttavia riferendosi maggiormente alla superiore autorità del Maggior Consiglio. Quella di minoranza, invece, chiedeva il trasferimento della competenza, per i procedimenti penali nei quali si fossero trovati coinvolti dei patrizi, dagli Inquisitori al plenum del Consiglio dei Dieci. Inoltre veniva richiesto, nel caso in cui i Dieci avessero delegato qualche caso agli Inquisitori, che venissero imposte delle maggiori garanzie per la difesa degli imputati. Chiedevano infine che venisse diminuito il potere correzionale dei tre per i comportamenti pubblici e privati, e addirittura di eliminarlo, o almeno limitarlo, nei casi in cui i soggetti colpiti avessero ricoperto delle cariche importanti. Marco Foscarini, leader della maggioranza, difese in maniera esemplare il mantenimento del quadro istituzionale. Lo stesso fece la minoranza dei “novatori”, sostenendo però che per rafforzarlo non bisognava ulteriormente accentrare il potere nelle mani di pochi, ma ritornare al passato, ai primi anni della Repubblica. Nessuno dei due schieramenti voleva dunque una rottura della struttura di governo. La proposta della maggioranza, come era prevedibile, venne approvata il 16 marzo 1762. In aprile vennero inoltre approvate delle decretazioni sulle quali i correttori avevano trovato accordo: il Consiglio dei Dieci non doveva ingerirsi in materie civili e non doveva interferire nelle competenze assegnate ad altri organi di governo; venne confermata l’autorità dei Dieci sui permessi per l’erezione di nuove scuole e confraternite; si precisò la competenza dei Dieci in materia di manifattura vetraria; si stabilì che i quattro segretari dei Dieci dovessero essere eletti a scrutinio segreto e durassero in carica due anni con due anni di contumacia. Dopo due anni di segregazione Angelo Querini ritornò a Venezia. Nonostante tutte queste vicissitudini e scontri politici, la forza di questo tribunale era rimasta ancora una volta pressoché intatta, segnale chiaro che questa magistratura, anche se accusata aspramente di abusi di potere, era indispensabile per il mantenimento della struttura politica veneziana. Segnale chiaro della sua accresciuta importanza è il fatto che per la prima volta in questa correzione l’oggetto della revisione sia proprio questo supremo tribunale, non il Consiglio dei Dieci. Addirittura gli stessi “novatori” chiederanno che a quest’ultimo consiglio vengano restituite alcune competenze ormai passate agli Inquisitori.[44]

  
Procedure inquisitorie

Il processo inquisitorio.

“Grande, terribile, insopportabile, odioso, non si sa chi sia esaminato, chi habbi querelato, si convien far la sua difesa all’oscuro; non vi esser difesa d’amici, non di parenti, non di avvocati, non de contradittori, non d’alcuno”. Così Renier Zeno definiva il rito del Consiglio dei Dieci.[45] Nei primi decenni del Cinquecento la dilatazione delle competenze dei Dieci e la nascita di numerose magistrature ad esso collegate, come abbiamo visto, segnano la punta massima della espansione del processo inquisitorio, con il conseguente indebolimento dei tribunali con la ordinaria procedura pubblica. Questo cambiamento coinvolge gran parte dell’Europa: Francia, Impero, Stato della Chiesa, Milano, Firenze, sebbene tutte con delle peculiari diversità, operano delle riforme accomunate dall’intento di garantire ai propri governi gli strumenti necessari per mettere in pratica, quando necessario, un intervento repressivo il più rapido e esteso possibile, capace così di prevaricare le garanzie offerte agli imputati dal processo accusatorio.[46] Così a Venezia abbiamo il “rito” del Consiglio dei Dieci, che in pratica, almeno inizialmente, è quello con cui operavano gli Inquisitori di Stato. Nel processo inquisitorio, ovviamente, non avveniva un confronto tra l’imputato e la parte offesa. L’inquisizione era suddivisa in due parti: generale e speciale. La prima prendeva avvio da una denuncia segreta o anonima, pubblica o privata, era quindi di per sé molto incerta. Per questo motivo i poteri degli inquisitori, inizialmente i due Inquisitori dei Dieci, nati assieme allo stesso consiglio, saranno in questa prima fase molto ristretti; di propria iniziativa non potevano né arrestare, né effettuare perquisizioni nella casa dei sospetti, né usare la tortura. Era necessaria per queste azioni l’approvazione della maggioranza del Consiglio dei Dieci. Le loro competenze però saranno sempre più assorbite, oltre che aumentate, dagli Inquisitori di Stato, soprattutto su alcuni campi specifici. Anche se verranno svuotati di gran parte delle loro funzioni, gli Inquisitori dei Dieci verranno eletti fino alla caduta della Repubblica. Finita l’inquisizione generale il materiale raccolto veniva consegnato ai Dieci i quali decidevano, esaminati i documenti anche dall’avogador di comun, se terminare il processo prosciogliendo l’imputato, oppure passare alla inquisizione speciale.[47] Questa seconda fase, nei casi più lievi, veniva affidata ai tre Capi dei Dieci; nei casi più gravi veniva istituito un apposito collegio che comprendeva uno dei capi dei Dieci, un consigliere ducale, un avogador di comun, un Inquisitore dei Dieci, tutti estratti a sorte, e che doveva essere rinnovato ogni mese. Una volta istituiti, gli Inquisitori di Stato potevano entrare tutti e tre nella commissione incaricata della inquisizione speciale. Solitamente era il Capo dei Dieci a presiedere i lavori; tuttavia in alcuni casi, per esempio falsificazione di monete, era l’avogador a presiederli. Il fatto che le due fasi inquisitorie fossero affidate a due commissioni differenti dava indubbiamente maggiori garanzie all’inquisito. Tuttavia anche i poteri di questi due collegi erano molto limitati, visto che quasi ogni provvedimento doveva essere autorizzato dai Dieci. Soprattutto per quanto riguarda la tortura, la prudenza nell’utilizzarla era enorme: era il Consiglio dei Dieci a stabilire quando doveva essere usata, oppure poteva delegare la decisione al collegio. Solitamente si cercava di evitare l’uso di questo strumento, tranne nei casi in cui, dopo l’inquisizione generale, si fosse sicuri della colpevolezza.[48] Garanzie comunque c’erano anche per l’uso della tortura: prima di effettuarla veniva consultato un medico e inoltre le confessioni ottenute in questo modo non erano valide se non venivano confermate dal colpevole il giorno dopo la tortura.[49] Da notare una divergenza nell’uso della tortura: a Venezia veniva eseguita prima delle difese, in Terraferma dopo, sebbene in alcuni casi anche qui si procedesse come nella capitale. L’interrogatorio degli accusati veniva svolto di solito al buio, a volte con un cappuccio in testa, inoltre in alcuni casi gli arrestati venivano detenuti in una prigione buia sino al processo. Tuttavia, a volte, l’accusato poteva ottenere di essere interrogato alla luce del sole. Il reo non poteva sapere i nomi dei suoi accusatori e dei testimoni contro di lui, neppure questi dovevano conoscersi tra loro, e a tal fine era esclusa la possibilità che si confrontassero direttamente. L’imputato doveva difendersi da solo, senza avvocato, ruolo che però poteva essere svolto, se lo riteneva giusto, da un membro dei Dieci, dettando al cancelliere la propria difesa, indicando i testimoni che voleva convocare a sua discolpa. Neppure l’imputato poteva avere una copia del processo, ma doveva usare la propria memoria; era concesso esibire a propria difesa atti pubblici, ma non scritture private.[50] C’erano delle differenze, nello svolgimento dei processi, tra Venezia e la terraferma: nelle città del Dogado la sentenza si aveva in tempi brevi, mentre a Venezia, a causa soprattutto della grande quantità di lavoro, la carcerazione preventiva era molto più lunga, e non veniva calcolata nella pena definitiva, ma veniva aggiunta ad essa. Nella capitale, tuttavia, non si pagavano le spese processuali.[51]

I testimoni dovevano esprimere due giuramenti: quello “de veritate” e quello “de silentio”.[52] Nel caso ci fossero state discordanze tra loro, nel “rito” non era previsto il confronto fra testimoni, nè tra il colpevole e il testimone, ma solo tra colpevoli[53]. In questa procedura, invece del confronto, il testimone che nega viene trattenuto in prigione, esaminato anche nella stanza delle torture, e poi ,in caso negativo, viene lasciato senza giuramento “de veritate”. Le accuse e le difese erano comunque messe per iscritto da due notai. Terminata anche l’inquisizione speciale, tutti i documenti venivano consegnati al Consiglio dei Dieci, che decideva nuovamente se portare a termine il processo o prosciogliere l’accusato. Dalla fase conclusiva del processo erano esclusi, oltre ai parenti dell’imputato, anche i membri del consiglio che lo avevano denunciato. Secondo il rito l’imputato doveva difendersi da solo, in realtà questo non avveniva sempre. Secondo Cozzi sicuramente in alcuni processi, da lui esaminati, l’imputato è costretto a difendersi da solo, ma in molti altri è “pressochè certo che il testo della difesa viene da fuori, opera di avvocati, o di procuratori o di chissà chi altro: l’imputato lo riceveva e lo consegnava ufficialmente al cancelliere, dicendo che quella era la sua difesa”.[54] I due Inquisitori dei Dieci non erano esclusi, potevano anche votare, ma non potevano proporre nè la colpevolezza dell’imputato, nè la pena. Gli Inquisitori di Stato invece avranno oltre al diritto di voto, pieno diritto di proposta, sia sulla condanna che sulla pena e in alcuni casi definiranno addirittura da soli l’intero processo.

Questo passo, cioè il diritto di proposta, sarà decisivo. Ottenuto a metà ‘500 durante il processo ai due Cavazza, nel quale avevano addirittura chiesto di poter condurre da soli l’inquisizione speciale, dove tuttavia erano stati affiancati dal collegio, sarà fondamentale per la loro evoluzione, che li porterà a divenire forse la più importante delle magistrature. L’avogadore, invece, formava il processo, poteva proporre la pena, ma non poteva votare. Una volta letti da un segretario tutti i documenti riguardanti il processo, l’avogadore proponeva la votazione sulla condanna o meno dell’accusato. In caso positivo ogni membro poteva formulare una proposta di condanna: prima l’avogadore, poi, in ordine di importanza e di età, gli Inquisitori, i Capi dei Dieci, i Consiglieri e infine il Doge. Ogni proposta veniva votata, e nel caso in cui dopo cinque votazioni nessuna avesse ottenuto la maggioranza, l’accusato poteva essere rimesso in libertà, o deferito ad un’altra magistratura, oppure il processo veniva riformato, di solito quando emergevano nuove prove. Se invece una condanna otteneva la maggioranza, doveva essere votata altre quattro volte per poi essere definitivamente approvata. Il giudizio era inappellabile, sia se pronunciato dai Dieci, sia dai rettori col “rito” del Consiglio. C’era comunque la possibilità di chiedere, dopo molti anni, la revisione del processo, che poteva essere concessa in qualche caso dallo stesso Consiglio dei Dieci. Nei confronti dei giudizi emanati dai rettori, i sudditi potevano fare ricorso ai Capi dei Dieci per due volte, poi al Consiglio stesso.[55] A Venezia c’era inoltre una chiara differenza tra il processo celebrato col rito del Consiglio dei Dieci e quelli celebrati con lo stesso rito, ma nei tribunali che ne dipendevano, come gli Esecutori contro la bestemmia e altri. Nel primo caso il rito veniva sempre applicato in maniera scrupolosa, negli altri invece la formalità dell’autodifesa era praticamente eliminata.[56] Questo era il meccanismo inquisitorio creato dai Dieci; con lo sviluppo degli Inquisitori di Stato, come abbiamo visto e vedremo, non sempre queste procedure vengono rispettate, addirittura il Consiglio dei Dieci stesso verrà quasi oscurato da questa magistratura.[57]

Per quanto riguarda le trasformazioni delle procedure degli Inquisitori di Stato, ricordiamo che nei loro processi, nei casi in cui il Consiglio dei Dieci li delegava, sempre più frequentemente a partire dalla fine del Seicento, quasi ogni formalismo era stato abbandonato. In caso d’urgenza un solo inquisitore poteva ordinare l’arresto, ma se subito dopo gli altri due non erano d’accordo, l’inquisito doveva essere immediatamente rilasciato. Era invece necessaria la presenza di tutti e tre per prendere visione dei processi e delle scritture degli altri magistrati; anzi di volta in volta era necessaria una loro preventiva e unanime deliberazione, scritta e firmata. Potevano riunirsi in qualunque luogo, anche nella casa di uno di essi, ad ogni ora. Nel caso in cui un processo aveva inizio da una denuncia segreta, gli Inquisitori incominciavano con l’inviare spie, almeno due, tre volte, mandando agenti diversi, per controllare il fondamento della denuncia.[58] Nel caso in cui queste indagini preliminari fossero state positive, si procedeva con l’interrogatorio dei testimoni. Questo veniva svolto in segreto, intimando inoltre gravi pene se l’interrogato avesse lasciato trapelare qualcosa dell’interrogatorio subito. Una volta raccolte delle prove considerate sufficienti, veniva convocato il colpevole sul quale, nei casi in cui fosse stato ritenuto necessario, si poteva operare un arresto preventivo. L’arresto avveniva, per evitare confusioni, solitamente di notte oppure utilizzando qualche stratagemma. Dalla terraferma l’imputato veniva trasportato a Venezia in una carrozza chiusa, ma spesso il processo veniva delegato, come abbiamo visto, ai rettori con il rito del Consiglio dei Dieci.[59] Per uso di carcere di “cauto arresto” venne assegnato agli Inquisitori il locale posto sopra la camera dei Capi, cioè quelli che poi saranno chiamati Piombi.[60] Nei casi in cui l’intero processo veniva delegato agli Inquisitori, era il segretario che registrava domande e risposte, riceveva le suppliche, formava il processo, notificava le accuse, verbalizzava le difese, strutturava la sentenza che doveva poi venire pubblicata nella successiva riunione del consiglio sovrano, e che, assieme ai risultati del processo, era stata preventivamente comunicata al Consiglio dei Dieci. Le condanne inflitte variavano, dalla relegazione nella propria casa, in campagna o in una fortezza, alla prigione temporanea o perpetua, alla morte segreta. A volte, nei casi lievi, gli Inquisitori si limitavano ad ammonire il colpevole, a volte espressamente, a volte tacitamente, chiamandolo e facendogli fare una lunga e penosa anticamera per poi farlo licenziare dal fante o dal segretario, senza nessuna comunicazione e spiegazione. I tre avevano l’autorità di infliggere pene minori di quelle previste dalle leggi, ma nel caso in cui avessero voluto infliggere una pena più grave dovevano rimettere la decisione al Consiglio.

Come i Dieci, i tre erano completamente incompetenti in materia civile. Tuttavia nel corso del ‘600, quando si trattava di nobiluomini veneti e di famiglie importanti della nobiltà del Dominio, gli Inquisitori intervenivano anche in civile, altro forte segnale della dilatazione delle loro competenze. Altro elemento molto importante era l’assenza quasi totale di ogni formale garanzia procedurale. Tuttavia una c’era, e costituiva un freno contro ogni abuso; ogni atto degli Inquisitori, tranne, come è già stato sottolineato, l’arresto d’urgenza, era nullo se non preso all’unanimità. Garanzia semplice ma efficace, visto che non era pensabile che tre magistrati giunti a questo importante incarico dopo aver speso tutta la vita al servizio dello Stato potessero essere d’accordo nel commettere una qualche ingiustizia della quale, scaduta la breve carica, avrebbero dovuto sicuramente rendere conto.[61] Inoltre i tre non avevano proprio denaro nè una propria forza armata; l’unico esecutore materiale dei loro ordini era un subalterno, chiamato il fante degli inquisitori. Nel caso in cui avessero avuto bisogno di una forza armata, dovevano farne richiesta al Consiglio dei Dieci o agli altri consigli della Repubblica. Per quanto riguarda i mezzi finanziari, in caso di necessità ricevevano denaro dal Consiglio dei Dieci senza dovergli rendere i conti, ma del quale dovevano conservarsi la continua fiducia.[62]

I raccordi.

“Che sia data facoltà alli Inquisitori sopra i secreti di poter proponer et prometter a quelle persone, che a loro pareranno da poter haver servitio per vegnir in cognitione de chi revela li secreti del Stato nostro quel premio in denari et altro che li parerà secondo le offerte et promesse che haverano, li qual premi da loro Inquisitori promessi siano confermati da questo Consiglio con li 2/3 delle ballotte di quello.” 1583, 24 ottobre, in Consiglio dei Dieci.[63]

Per un’ottima riuscita delle loro operazioni i servizi di spionaggio e controspionaggio avevano bisogno non solo della collaborazione degli apparati dello Stato, ma degli stessi cittadini, convinti del fatto che anche loro dovevano partecipare fattivamente alla sicurezza comune. Sin dal ‘400 Venezia aveva escogitato un metodo per favorire e stimolare la cooperazione dei sudditi, a volte anche di singoli stranieri, nella raccolta di notizie e segreti di ogni tipo utili alla salvaguardia dello Stato: riguardavano appunto l’economia, l’amministrazione pubblica, la sicurezza, le grandi vicende politiche. Il raccordo è un memoriale sottoscritto personalmente o da terza persona per conto dell’interessato, che un privato cittadino consegnava al Consiglio dei Dieci(se si trattava di privilegi industriali anche al Senato) su materie di rilevante importanza per lo Stato: l’oggetto poteva essere dei più svariati, brevetti industriali, medicinali contro la peste, sistemi idraulici per la bonifica della laguna, nuove armi, mappe di tesori, nuovi metodi per l’allevamento.[64] A volte il raccordo riguardava gli aspetti più delicati della vita pubblica, truppe, contrabbandi, diffusione di segreti di stato, spionaggio, tradimenti, colpi di stato, pericoli per l’Arsenale, per il Palazzo Ducale, la Zecca, la sicurezza dei palazzi e dei singoli uomini politici. Gli autori sono persone di ogni condizione sociale: sudditi, stranieri, banditi che sperano appunto di ricevere la revoca del bando e magari una ricompensa in denaro, ma anche onorati cittadini, come medici, avvocati, funzionari statali, che sfruttano le loro conoscenze per ricattare economicamente gli Inquisitori, sempre attenti a questi affari, soprattutto nel caso di tradimenti e congiure.[65] Non mancano ovviamente truffatori, avventurieri dediti al doppio gioco, che sono veramente venuti a conoscenza di un segreto importante da vendere a caro prezzo. Tali raccordi aumentano in maniera esponenziale in concomitanza di guerre o di avvenimenti politici importanti, come negli anni della guerra di Cipro o durante la vertenza dell’Interdetto.[66]

Le denunce segrete e le bocche di leone

Altro strumento molto usato nel rito inquisitorio è sicuramente la denuncia segreta, in particolare per i delitti pubblici e contro la sicurezza dello stato. Queste denunce potevano essere di due tipi: di persona segreta, che si riservava di comparire in un secondo momento, oppure anonima, cioè senza sottoscrizione. Le denunce segrete richiedevano sempre una valutazione preliminare di ammissibilità da parte del Consiglio dei Dieci.[67] A volte, quando il denunciante era un semplice cittadino che chiedeva di usufruire di una taglia o del patrimonio del reo, questa non si discostava troppo dal raccordo, se non per il fatto che in questo secondo caso il cittadino agiva di propria iniziativa, scegliendo cosa rivelare e cosa richiedere allo stato come beneficio economico, mentre la prima era collegata a un reato, a un reo e a una taglia già stabilita. Comunque la definizione legislativa corretta delle denunce segrete avvenne tra il 1588 e il 1647: vengono accettate con i 2/3 dei voti del Consiglio dei Dieci(4/5 se provenienti dai reggimenti o relative a fatti qui accaduti) nel caso in cui si tratti di giuramenti falsi, “permute e baratti di ballotte”, vagabondi ecc.; nel caso in cui invece riguardino maschere, ”archibugi e barche”, devono essere prima votate in due testi davanti agli Avogadori di comun, poi portate ai Dieci.[68] Nel 1635 e 1642 viene codificata chiaramente la legislazione delle denunce segrete in materie di stato: il 13 agosto 1635 i Dieci vietano di prendere in considerazione le denunce che non riguardino vagabondi, “permute e baratti di ballotte”, prescrivendo comunque la maggioranza dei 4/5 per procedere. Un’altra legge del 1647 afferma che le denunce segrete in materia di stato prima devono essere dichiarate tali dall’unanimità dai consiglieri ducali, dai capi dei Dieci e da almeno 5/6 del Consiglio dei Dieci, poi votate di nuovo, con 4/5 di maggioranza, per l’accettazione e l’avvio del procedimento.[69]

La definizione delle materie di stato non è stabilita da una sola legge, ma, come è tipico del sistema veneziano, viene elaborata progressivamente nel corso dei secoli: tra esse, in un arco cronologico che va dal 1622 al 1704, troviamo la violazione dei segreti di stato, il ricevere da qualsiasi principe provisioni, donativi o altro, organizzare ”permute e baratti di ballotte”, portare armi da fuoco a Venezia, vagare per la città di giorno e di notte “in habito diverso, in tabarro e vestimenti di colore senza la veste istessa”.[70] Le bocche di leone vengono introdotte a Venezia solamente tra fine ‘500 e primo ‘600: per molto tempo le stesse denunce segrete vengono recapitate ai magistrati da terze persone o gettate in qualche luogo pubblico. Ancora dopo l’istituzione delle bocche di leone, nel 1672, una lettera anonima viene infilata sotto la porta della sala del Consiglio dei Dieci. Solitamente le denunce segrete vengono introdotte in apposite cassette mobili, spesso di legno, appese sulle pareti degli edifici in cui si trovano le magistrature alle quali sono indirizzate. Le bocche di leone sono dei mascheroni in pietra, a volte anche pregiati dal punto di vista artistico, con una epigrafe indicante l’oggetto delle denunce, nelle quali venivano appunto introdotte le denunce che scivolavano in una cassetta apribile dall’interno dell’edificio. Le bocche di leone sono presenti anche nei reggimenti di terraferma: qui solitamente finiscono le denunce su materie finanziarie o civili più legate alla realtà locale, mentre nelle cassette mobili vengono introdotte le denunce segrete relative a materie di stato, poi trasmesse a Venezia.[71] Molte di quelle veneziane riguardano reati finanziari, abusi e disordini amministrativi: esportazione abusiva di canne da vetro e di oro, incette o estrazioni abusive di grani, fughe spontanee o rapimenti di tessitori, contrabbandi, frodi, detenzione abusiva di armi, ecc..

Il timore di rappresaglie spingeva alcuni cittadini di terraferma e del Levante a imbucare le proprie lettere in cassette e bocche di leone molto lontane, denunciando le prepotenze di alcuni amministratori locali e degli stessi rettori. Inoltre molte denunce segrete in materia di stato segnalano comportamenti politici vietati dalle leggi o comunque sospetti, rapporti frequenti con ambasciatori stranieri, soprattutto di Spagna e dell’Impero, rivelazione di segreti di stato, espressioni ingiuriose verso lo stato, incontri con nobili forestieri, favoreggiamento di banditi. Anche le satire anonime che colpiscono alcuni nobili o lo stesso governo sono oggetto di denunce segrete e lettere anonime. Le denunce preferite dagli inquisitori sono quelle di spionaggio e complotto: alcune lettere “orbe”, così venivano definite le lettere anonime, accusavano cittadini sudditi e stranieri di spiare in favore della Spagna, dei Turchi, di altri sovrani, mentre altre svelavano trattati contro la Repubblica. Le denunce segrete continuano a essere usate sino agli ultimi decenni del ‘700; la rimozione delle bocche di leone viene ordinata dal Comitato di salute pubblica nel giugno del 1797, condannate come mezzi di pubblica corruzione.[72]

Traditori e banditi.

L’attività degli Inquisitori di Stato nel corso del Seicento non è volta solamente alla ricerca di informazioni sui progetti delle potenze straniere, fuori e dentro le ambasciate, ma si interessa anche di altri affari: negli interessi di questa magistratura ci sono, tra gli altri, anche coloro che si sono macchiati di tradimento verso la patria e i banditi, che spesso provocano numerosi problemi all’interno dello stato. Per quanto riguarda la prima tipologia di persone, ricordiamo che fino dai tempi molto remoti della sua nascita la Repubblica ha mostrato inflessibilità verso i traditori; per ricordare solo gli episodi più importanti, citiamo la congiura di Baiamonte Tiepolo e Pietro Querini, la fine di Marin Faliero, decapitato, assieme ai suoi complici, dopo la scoperta del suo complotto, e cancellato dalle memorie stesse della Repubblica; ricordiamo infine lo strangolamento dei tre carraresi di Padova, dopo la conquista della città, per assicurarsi la tranquillità necessaria per governare.[73]

Tutta la storia veneziana è costellata di episodi di questo tipo, che coinvolgono spesso personaggi di minor calibro rispetto a quelli citati negli esempi precedenti. Nel corso del Seicento ricordiamo alcuni episodi importanti: il 28 marzo 1607 il provveditore generale in Dalmazia Gianbattista Contarini propone di sequestrare le rendite in terra veneta di don Alessandro Comolli, fomentatore di sollevazioni in Albania[74], “quando non havesse Sua Signoria però pensiero di servirsi di alcuno di quei mezi con quali sogliono i Principi grandi levarsi stimoli così fatti da gl’occhi”[75]; Andrea Ferletich, pirata uscocco al servizio degli spagnoli, è più volte nel mirino dei sicari veneziani: tra il 1619 e il 1622 compaiono vari aspiranti sicari; il 16 maggio 1622 il Residente a Napoli lo fa seguire da spie, offre sino a mille ducati e quattordici giorni dopo annuncia che è morto.[76] Il 30 marzo 1686 i Dieci ordinano all’ambasciatore a Vienna che sia “levato dal mondo” senza danno all’immagine pubblica Gabriel Vecchia, un suddito reo di “procedure abbominevoli”.[77]

Per quanto riguarda i banditi veneziani, molto importanti sono “le voci liberar bandito”, cioè la possibilità di liberare un bandito o di incassare un premio in denaro, offerto a chi uccide un altro bandito, metodo molto discusso usato sopratutto tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 per fronteggiare il problema dilagante del banditismo. Vi sono alcuni esempi importanti nel corso del ‘600, come quello del Cavalier Bertucci, un cittadino della Dalmazia colpito da un bando capitale; è controllato dalle spie veneziane sino al 1598, quando questo provvedimento viene sospeso in quanto egli ha ottenuto la protezione spagnola, poi nel 1601 arriva un nuovo ordine, che non sarà tuttavia eseguito, di catturarlo “vivo o morto”.[78] Nel 1635, il 9 marzo, gli inquisitori ricevono l’autorità “di poter per ogni via possibile procurar che sia levata la vita”al conte Nicolò Proveglia, compito condotto a termine, “con frequenza de viaggi et pericoli”, da Scipione Leone, che il 12 luglio 1638 sollecita il porto d’armi “per sicurezza della sua vita”.[79]Particolarmente interessante è il tentativo, non riuscito, di assassinare a Mantova Alessandro Guarnier, un bandito al servizio del papato. Dal fitto scambio epistolare tra il Residente di Mantova e gli Inquisitori, appaiono chiari i metodi usati da tale magistratura in questi casi. La prima notizia che abbiamo sulla vicenda è la lettera inviata al Residente Zon dagli Inquisitori in data 10 ottobre 1643, in cui chiedono chiaramente di “levar di vita” un certo Guarnier, “come la temerarietà delle sue attioni pienamente merita”, senza preoccuparsi della spesa perchè “se vi occorrerà qualche spesa, sarà pronto il danaro”.[80] Pochi giorni dopo, il 17 ottobre, un’altra lettera degli Inquisitori parla di alcuni problemi sorti nell’affare, per la protezione di cui gode il Guarnier nello stato di Bozzolo; si parla inoltre del pagamento, che deve essere fatto “a negotio consumato, et non prima”, “negotio della morte, che solo sarà rimesso al nostro magistrato, senza darne parte ad altri”.[81]Emerge dunque in questa lettera la completa segretezza in cui si svolge tutta l’operazione; il 29 ottobre è lo stesso Residente di Mantova che scrive agli Inquisitori per informarli su chi sarà l’autore materiale del delitto. La descrizione è molto chiara e precisa: si chiama Fabio Gregorio, un uomo di “età consistente”, “ben conosciuto da cotesto Capitan Grande”, e “che in simili casi ha fedelmente servito Vostre Eccellenze, all’hora principalmente quando Camilo Cataneo di Lendinara et altri famosi banditi di quel partito erano a danni dello stato e de’ sudditi di sua serenissima”.[82] Tale Fabio Gregorio conosce inoltre persone fidate, che possono spiare i movimenti del Guarnier. Il 31 ottobre 1643 un’altra lettera dà informazioni più specifiche sui rimborsi che spettavano al Residente. Il Senato ha ordinato l’arresto del Guarnier, mentre gli Inquisitori ne hanno ordinato la morte: quindi, per ciò che concerne “tutte le spese di staffette, od altro, che da lei (si riferiscono direttamente al Residente) si sian fatte o siano per farsi, in riguardo all’arresto, potrà darsi credito nelli suoi conti, che le saranno bonificati dall’Eccellentissimo Senato; delle diligenze che verserà, per far seguire la morte di colui, potrà far nota a parte, che del speso sarà rimborsata dal nostro magistrato”.[83] Del 16 novembre 1643 è l’ultima lettera degli Inquisitori in cui troviamo notizie, molto generali, per quanto riguarda il “solito affare” [84], mentre continuano ad arrivare lettere da Mantova. Probabilmente le lettere degli Inquisitori di questo periodo sono andate perdute, anche perchè il 3 dicembre 1643, su ordine degli stessi Inquisitori(del quale non c’è traccia, e che doveva essere datato al 24 novembre), viene revocato “l’ordine concernente l’affare del Guarnier”, che così “resterà sospeso fino ad altra espressa, precisa commissione dell’ Eccellenze Vostre”.[85]Ultime notizie su questo ormai mancato assassinio, sono del maggio successivo; sono una vera e propria lista che elenca minuziosamente tutte le spese sostenute per questa operazione: “per due espeditioni espresse nel mese di ottobre, ducati 20 e 4; per trattenimento di una spia dal 18 ottobre fino li 24 novembre, che sono giorni 36 ducati 36; a Fabio per la frequenza dei suoi viaggi ducati 30; totale ducati 86 e 4”.[86]

Le spie degli inquisitori.

E’ soprattutto nel Seicento che gli Inquisitori cominciano a fare largo uso delle spie, o confidenti. Coprono ogni tipo di affare, dalla politica estera agli episodi di poca importanza che riguardano la vita veneziana di ogni giorno. Questa vastità di interessi è dovuta alla preoccupazione, tipica dell’ambiente veneziano, di un pericolo politico e sociale sempre incombente e che può nascere anche dagli strati più bassi. I confidenti sono perciò molto attenti ad ogni forma di dissenso politico; per questo motivo i momenti critici per la struttura stessa del governo, come per esempio le correzioni del 1628 e del 1677, determinano un forte movimento di spie, del quale tuttavia abbiamo meno informazioni rispetto agli episodi eclatanti del Settecento. Addirittura gli Inquisitori ordinavano la raccolta delle satire affisse sul Gobbo di Rialto, dei cartelli di protesta appesi per la città, chiaro segno dell’intenzione di controllare strettamente il pensiero dei cittadini.[87] Nel corso del ‘600, inoltre, le spie al servizio dei tre iniziano ad essere dei personaggi ben distinti. Compito primario di questi è ovviamente quello di raccogliere notizie importanti che riguardano la sicurezza dello stato, il dissenso politico; per fare qualche esempio ricorderemo un certo Giovanni Ferrari che, mescolatosi fra dei nobili stranieri, riesce a raccogliere ottime informazioni per lo stato; altro esempio è quello di Camillo Badoer, il cui raggio d’azione è molto ampio, dalla sicurezza a tutti gli aspetti della pubblica moralità, girando tra i piccoli teatri e ridotti a caccia di piccoli e grandi scandali descritti molto minuziosamente.[88] Importanti sono inoltre le spie che gli Inquisitori mantengono all’estero, senza dimenticare che gli stessi ambasciatori, non contando la loro stessa rete spionistica, svolgono un’azione non molto differente, anche se sono considerati spie “onorate”. Questi delatori riescono a spedire le proprie informazioni a Venezia non con normali corrieri statali, ma utilizzando anche dei finti fermoposta o destinatari di comodo, per poi far giungere le informazioni al segretario dei Dieci oppure agli Inquisitori.[89] Nel corso del ‘700 lo spionaggio aumenta in maniera esponenziale, sembra una società sorvegliata in ogni aspetto e in ogni momento. In realtà, rispetto alla grande quantità di informazioni che arriveranno agli Inquisitori, piccolissima sarà la loro attività di repressione. Non la metteranno in pratica non solo per una mancanza di volontà, ma soprattutto per una certa forma di impotenza dovuta alla più che conosciuta “senescenza” della stessa Repubblica nel corso del ‘700. I confidenti degli Inquisitori appartengono comunque a tutte le categorie sociali, ai più vari ceti professionali: nobili, barnaboti, nobili decaduti, letterati, stranieri, librai, marangoni, avventurieri, disertori, etc..[90] Da ricordare infine tre delle spie più importanti del Settecento: Michelangelo Bozzini, Giovanni Cattaneo e Giacomo Casanova. Il primo è un abate, ma anche uomo d’affari e imprenditore oltre che spia al servizio dell’Austria e poi di Venezia; per quest’ultima opera presso la corte di Carlo III, nel 1737. Richiamato a Venezia, vaga poi per l’Italia: Roma, Livorno, Ancona, Ferrara, Napoli sono le sue mete. Dopo una serie di vicissitudini nella città partenopea, ricompare a Vienna dove propone all’ambasciatore veneziano un affare quasi da spionaggio “industriale”. Questa è l’ultima notizia su di lui.[91] Il secondo, Giovanni Cattaneo, è un abate conte, molto geloso della sua opera di spia, che lui non vede così negativamente. Nasce nel 1728 e le sue informazioni arrivano sino al 1795. Lavora per Venezia come intermediario con la Prussia, preparando sul campo il terreno per le trattative ufficiali. Dopo aver vissuto da spia, ormai vecchia, la rivoluzione francese e i suoi effetti, il Cattaneo si spegne nel febbraio del 1796.[92] Infine Giacomo Casanova; molti hanno scritto sulle sue imprese nella carriera di “amatore-libertino”, e si sa che fu anche un truffatore. Per gli Inquisitori, dopo l’incredibile fuga dai Piombi, lavora a Trieste e dal 1776 comincia una assiduo lavoro nella stessa Venezia. Dopo un impegnativo incarico in Romagna, nel 1780 diventa finalmente confidente onorario: si occupa di religione, costumi, pubblica sicurezza, commercio e manifatture.[93] Dopo essere ritornato a Trieste ancora come spia, la sua carriera termina nel 1782: dopo una aspra controversia finanziaria con un nobile, si vendica scagliandogli contro un anonimo opuscolo satirico, ma la violenta reazione provocata dal patrizio lo costringe ad una fuga precipitosa da Venezia.[94] Queste tre biografie, appena accennate, indicano in maniera inequivocabile che la maggior parte delle spie di quest’ultima fase della Repubblica erano degli avventurieri, disposti a qualunque cosa pur di guadagnare denaro.[95] Nel prossimo capitolo focalizzerò la mia attenzione sulla prima metà del Seicento, periodo in cui il peso dell’egemonia spagnola si farà sentire marcatamente non solo su gran parte dell’Italia, ma anche sullo stesso ambiente veneziano, comportando un enorme aumento di intrighi politici, e quindi di spie, che agiranno per sconvolgere la sua stabilità interna.

 

 


[1] P.Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 55-56.

[2] Ibidem, p. 58.

[3] A.S.V., I.S., b. 157, 27 giugno 1617.

[4] S.Romanin, Storia documentata di Venezia, Venezia, Filippi Editore, 1974, tomo VI, pp. 58-59.

[5] A.Da Mosto, Archivio di stato di Venezia: indice generale, storico, descrittivo ed analitico, Roma, Biblioteca d’arte, 1937.

[6] R.Fulin, Di una antica istituzione mal nota. Inquisitori dei X e inquisitori di Stato, Venezia, Tipografia Grimaldo e c., 1875, pp. 36-37.

[7] Ibidem, p. 39.

[8] Ibidem, p. 40.

[9] G.Maranini, La costituzione di Venezia, Firenze, La Nuova Italia, 1927, tomo II, p. 478.

[10] Ibidem, p. 479.

[11] Romanin, Storia, tomo VI, p. 59.

[12] Maranini, La Costituzione, p. 480.

[13] Cozzi, Knapton, Scarabello,La Repubblica, p. 177.

[14] Ibidem, p.178.

[15] Ibidem, p. 179.

[16] Maranini, La costituzione, p. 483.

[17] Ibidem, pp. 485-486.

[18] G.Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 229-230.

[19] Ibidem, p. 260.

[20] Ibidem, p. 261.

[21] Lane, Storia di Venezia, pp. 467-468.

[22] Ibidem, p. 467.

[23] Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 248-249.

[24] Ibidem, p. 258.

[25] Lane, Storia di Venezia, p. 468.

[26] Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 262.

[27] Ibidem, p. 263.

[28] Ibidem, pp. 230-231.

[29] Ibidem, p. 263.

[30] Ibidem, p. 264.

[31] Ibidem, pp. 264-266.

[32] Ibidem, p. 268.

[33] Ibidem, pp. 269-270.

[34] Ibidem, p. 278.

[35] Lane, Storia di Venezia, p. 469.

[36] G.Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo 16 al secolo 18, Torino, Einaudi, 1982, p. 196.

[37] Ibidem, p. 197.

[38] Ibidem, pp. 197-198.

[39] Cozzi, Knapton, Scarabello, La Repubblica, p. 577.

[40] Ibidem, pp. 577-578.

[41] Ibidem, pp. 579.

[42] Ibidem, p, 580.

[43] Ibidem, p. 580-581.

[44] Ibidem, p. 581.

[45] Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 266.

[46] R.Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel ‘500 e ‘600, in Stato, società e giustizia nella Repubblica Veneta(sec.XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, vol. I, Roma, Jouvence, 1980, pp. 434-435.

[47] Maranini, La costituzione, p. 461.

[48] Fulin, Di una antica istituzione, p. 17.

[49] Maranini, La costituzione, p. 464.

[50] G.Cozzi, Autodifesa o difesa? Imputati e avvocati davanti al Consiglio dei Dieci, in La società veneta e il suo diritto, Saggi su questioni matrimoniali, giustizia penale, politica del diritto, sopravvivenza del diritto veneto nell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 151-152.

[51] Ibidem, pp. 154-155.

[52] C.Povolo, Aspetti e problemi della amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, secoli XVI-XVIII, in Stato, società e giustizia nella Repubblica Veneta(sec. XV-XVIII), a cura di G.Cozzi, vol. I, Roma, Jouvence, 1980, pp. 166-167.

[53]B. Melchiori, Miscellanea di materie criminali, volgari e latine, composta secondo le leggi civili e venete da Bartolommeo Melchiori, Venezia, Stamperia bragadina, 1741.

[54] Cozzi, Autodifesa o difesa?, pp. 161-162.

[55] Maranini, La costituzione, pp. 468-469.

[56]Cozzi, Autodifesa o difesa?, p. 166.

[57] Maranini, La costituzione, pp. 468-469.

[58] Ibidem, p.486.

[59] Romanini, Storia, tomoVI, p. 68.

[60] Ibidem, p. 64.

[61] Maranini, La costituzione, p. 488.

[62] Ibidem, p. 490.

[63] Romanin, Storia, tomo VI, p. 65.

[64] Preto, I servizi segreti, pp. 155-156.

[65] Ibidem, pp. 159-160.

[66] Ibidem, pp. 165-167.

[67] Ibidem, p. 168.

[68] Ibidem, p. 170.

[69] Ibidem, p. 173.

[70] Ibidem, p. 175.

[71] Ibidem, p 176.

[72] Ibidem, p. 176-177.

[73] Ibidem, p. 346.

[74] Ibidem, p. 347.

[75] Ibidem, p. 347.

[76] Ibidem, p. 347.

[77] A.S.V., I.S., busta 173, 30 marzo 1686.

[78] Preto, I servizi segreti, p. 344.

[79] Ibidem, p. 344.

[80] A.S.V., I.S., b. 157, 10 ottobre 1643.

[81] Ibidem, 17 ottobre 1643.

[82] A.S.V., I.S., b. 449, 28 ottobre 1643.

[83] A.S.V., I.S, b. 157, 31 ottobre 1643.

[84] Ibidem, 16 novembre 1643.

[85] A.S.V., I.S., b. 449, 3 dicembre 1643.

[86] Ibidem, 4 maggio 1644.

[87] Preto, I servizi segreti, pp. 185-186.

[88] Ibidem, p. 190.

[89] Ibidem, p. 191.

[90] Ibidem, p. 192.

[91] Ibidem, pp. 519-521.

[92] Ibidem, pp. 521-524.

[93] R.Fulin, Giacomo Casanova e gli Inquisitori di stato, Venezia, Antonelli, 1877.

[94] Preto, I servizi segreti, pp. 524-527.

[95] Ibidem, pp. 528-529.

 

Università Ca’ Foscari Venezia: Facoltà di Lettere e Filosofia : Corso di Laurea in Storia

TESI DI LAUREA: Venezia e Spagna. Inquisitori di Stato, ambasciatori e spie nella prima metà del Seicento / Piero Santin

Relatore: Prof. Sergio Zamperetti

Anno accademico 2002\2003 

  • La situazione politica europea all’inizio del secolo XVII
  • Gli Inquisitori di Stato
  • Ambasciatori e spie.