La morte nei secoli / Alessandra Comuzzi

La morte nella Comédie Humaine / Alessandra Comuzzi; relatore Alan Freer [2004]. – Università degli Studi di Pisa: Facoltà di lingue e letterature straniere, A.A. 2003-2004

Gli atteggiamenti nei confronti della morte sono cambiati notevolmente nel corso dei secoli, anche se molto lentamente. E’ possibile rendersene conto vedendo come sono cambiati i testamenti, gli “spostamenti” dei cimiteri e, ovviamente, come essa è trattata in letteratura.

Sino a circa metà del Medioevo, la morte era una cosa che non faceva assolutamente paura, era, per così dire, addomesticata [ARIÈS PHILIPPE, Storia della morte in Occidente,  Milano, BUR, 1988, pag. 18], ovvero si era rassegnati all’idea che essa costituiva il destino di tutti. C’era molta familiarità con la morte, e le caratteristiche comuni riportate in letteratura erano le seguenti: generalmente si sapeva che si stava per morire e perciò si aveva il tempo per eseguire tutta una serie di cerimoniali che erano ormai protocollati (si esprimeva un breve rimpianto per la vita e poi ci si dedicava alla preghiera); la morte era una cerimonia organizzata ed anche pubblica e, soprattutto, tutti i riti venivano compiuti in modo automatico, senza dimostrazioni di carattere drammatico. Inoltre questa familiarità era dimostrata anche dal fatto che il mondo dei morti non era separato da quello dei vivi: il cimitero sino al XVII secolo era ubicato accanto alla chiesa.

A partire dal XII secolo si può notare un importante cambiamento nei confronti della morte: essa non viene più accettata con la tranquilla rassegnazione che caratterizzava il periodo precedente, ma viene caricata di un nuovo significato soggettivo che si può comprendere analizzando l’iconografia del tempo che rappresenta il Giudizio universale. In questo modo, l’uomo, proprio al momento della morte acquista coscienza della sua individualità. Si passa perciò dalla morte intesa come fatto riguardante la collettività, alla morte che concerne il singolo soggetto, la propria morte.

Il 1700 porta ulteriori cambiamenti: essendo un secolo prettamente laico, scompare l’idea del Giudizio, scompare la figura del prete accanto al moribondo e viene sostituita da quella del medico. Si inizia un confronto moderno con la morte, essa viene razionalizzata, all’idea della morte si risponde con la vita. Ormai ci si preoccupa più della salute del corpo che di quella dell’anima, si lotta contro la morte, cambiano anche i testamenti (mentre prima si lasciava tutto alla Chiesa, ora l’eredità spetta alla famiglia), nascono le tombe singole o di famiglia e si diffondono anche gli epitaffi su targhe commemorative. E’ come se il fatto di poter andare nel luogo preciso dov’era sepolta la persona cara, le conferisse una sorta d’immortalità. Ciò dimostra che c’era una “nuova ripugnanza ad accettare la scomparsa della persona cara”. [ARIÈS PHILIPPE, Storia della morte in Occidente,  Milano, BUR, 1988, pag. 60]  Dopo il 1760, però, la paura della morte ricompare, anche se coesisterà con l’atteggiamento razionale sino alla fine del secolo. La cosa che più terrorizza l’immaginario collettivo è la paura della sepoltura in vita e della morte apparente, cosa che dimostra l’inquietudine davanti alla mancanza di confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti, rappresentata anche dal fatto che ci fu un gran movimento di contestazione nei confronti dei cimiteri all’interno delle città. Si pensava che le esalazioni da essi prodotti potessero nuocere alla salute pubblica e se ne decise la distruzione. I nuovi cimiteri, Père-Lachaise, Montparnasse e Montmartre, furono perciò costruiti fuori dalla città ai primissimi dell’Ottocento, anche se in seguito (1840) [VOVELLE MICHEL, La morte e l’Occidente: dal 1300 ai giorni nostri. Bari, Editori Laterza, 1993, pag. 563] furono inglobati dall’agglomerato cittadino che si espanse notevolmente. Infine, elemento molto importante che anticipa il Romanticismo, è la comparsa del lutto e delle lacrime, a testimonianza di un cambiamento della sensibilità collettiva.

L’Ottocento, riprendendo l’atteggiamento della fine del secolo precedente, è caratterizzato dalla paura della morte; essa ossessiona l’immaginario collettivo e il romanticismo ne fa uno dei suoi leitmotiv. Molti elementi sono cambiati rispetto ai secoli precedenti: il tasso di mortalità è diminuito, anche grazie alla fine delle epidemie e ad una migliore alimentazione di base, c’è la nascita della società industriale, e inoltre ci si pone il fine di sconfiggere la morte attraverso la medicina e i vaccini. Ma non bisogna dimenticare che, a partire dal 1815, esplose in Francia il cosiddetto mal du siècle. La malinconia che lo caratterizza fa sì che la morte diventi qualcosa di temuto e un argomento ricorrente. La paura della morte ora non è più soggettiva: la morte romantica per eccellenza è “la morte dell’altro, la morte del tu” [ARIÈS, op. cit., pag. 50].   L’indizio principale di questo cambiamento è dato da una modificazione del comportamento dei familiari presenti: come già si era preannunciato alla fine del ‘700, accanto all’espletamento dei soliti riti cerimoniali, è comparsa la manifestazione del dolore vero. C’è una vera e propria intolleranza all’idea della separazione definitiva dai congiunti, e persino una commozione all’idea stessa della morte.
Un altro aspetto fondamentale nato verso la fine del 1700, di completa rottura con i secoli precedenti, che il 1800 fa totalmente suo e sviluppa è la morte femminile (dovuta anche al fatto che finalmente la donna non è più tenuta lontano dai funerali come un tempo), che rappresenta sia la buona morte, quella dolce, della donna-angelo, che quella vergognosa, provocata dalla femme-fatale. E’ una rievocazione di Eros e Thanatos messa in atto dalla donna fatale, cioè colei che non rispetta i canoni borghesi, generalmente un prostituta, e che porta alla morte perché può contagiare malattie vergognose. La donna-angelo è colei che normalmente muore per amore, generalmente di consunzione, mentre la femme-fatale muore, e fa morire, di sifilide. Essendo una malattia ereditaria, la sifilide produsse la sindrome del contagio e annullò le differenze di classe che erano invece caratteristiche delle malattie come il colera (dei poveri) e la tisi (quasi esclusivamente femminile e aristocratica), essendo la cortigiana un anello di congiunzione di tutte le classi sociali. In letteratura la tisi è vista quasi come una malattia premio perché, essendo lunga e facilmente occultabile, permette al malato di pentirsi di eventuali errori commessi e di morire di una bella morte. Al contrario, la sifilide, essendo una malattia venerea, è vergognosa perché riguarda il sesso e ripugnante nelle sue sintomatologie. Essa rappresenta la sconfitta della scienza, e chi ne è affetto si isola sia per vergogna che per prevenzione, ma rappresenta anche la degenerazione della società intera, in quanto essa tocca i capisaldi della società borghese: il denaro e la famiglia. E’ una malattia punitiva. Si crea perciò una divisione ideale in buoni e cattivi da cui prende forma la figura della vittima, la moglie che viene contagiata senza alcuna colpa.

Un’altra caratteristica di questo secolo è, prevedibilmente, l’importanza che assume la famiglia intorno al moribondo: essa è sempre stata presente, ma ora assume una rilevanza maggiore perché la morte diventa un fatto privato. Come si è già detto, c’è una nuova manifestazione del lutto da parte dei familiari, che inoltre tendono a nascondere al malato la gravità del suo stato per proteggerlo, ma, così facendo, lo privano di una cosa che in passato era fondamentale: il sapere che la morte sta arrivando. Inoltre essi fanno costruire le cappelle di famiglia, che rappresentano un’ulteriore sacralizzazione della famiglia, essendo il luogo privato del dolore e del ricordo. Questo comportamento attesta anche che la paura prodotta dalla vicinanza dei cimiteri, caratteristica della fine del ‘700, è stata superata; oramai il cimitero è considerato necessario all’interno della città e ritrova perciò la collocazione che mantiene tuttora. Anche l’atteggiamento del moribondo è cambiato: egli si affida completamente ai suoi parenti, si fida di loro, e pensa al loro futuro nel testamento, ora completamente laicizzato. Il momento dell’agonia diventa quello in cui si dimostra il maggiore attaccamento alle cose terrene, sia per ciò che riguarda gli affetti che per i beni materiali. Il distacco è netto: mentre prima si pensava alla salvezza dell’anima, all’aldilà, ora si dimostra un estremo attaccamento ai valori terreni. Infine bisogna ricordare che in questo periodo nasce il funerale commerciale: le imprese funebri si incaricano di organizzare tutto, lasciando la famiglia libera di dedicarsi al proprio dolore. Ciò implica un’apparente solidarietà determinata dall’apparire dei necrologi (la morte viene, per così dire, pubblicizzata), ma comporta anche una privazione dell’intimità che la caratterizzava. Inoltre, a partire dal 1870, nasce la cremazione [VOVELLE, op. cit., pag. 587]  a dimostrare che l’ossessione per la morte è divenuta praticamente intollerabile.

Tutto ciò dimostra che non c’è più familiarità con la morte, che essa provoca una paura tale che la porterà a diventare, nel 1900, il tabù maggiore.

La morte secondo Balzac

Nel XIX secolo la presenza della morte nei romanzi era una parte essenziale della narrazione e anche un oggetto di meditazione filosofica. In questo periodo il romanzo di solito consisteva nella narrazione della vita di un personaggio, e la morte spesso rappresentava il punto culminante della narrazione, il climax.

La concezione cinica della storia e dei rapporti umani illustrata da Balzac nella Comédie Humaine investe anche il tema della morte. Nei suoi oltre novanta romanzi, la maggior parte dei personaggi si muove con fini egoistici, di bieca lotta per la sopravvivenza e l’arricchimento. Il messaggio dell’intera opera sembra essere che bontà, generosità e tutti i buoni sentimenti, benché valori nobili ed elevatissimi, non trovano posto nella società umana e sono destinati ad essere schiacciati da altri “valori” quali il denaro, l’arrivismo, il potere e l’apparenza. In un quadro così triste e negativo dei meccanismi sociali, la morte diventa un momento cruciale in cui appare la degenerazione del sistema sociale.
Balzac subì le influenze del Romanticismo, infatti molte sono le descrizioni di donne-angelo presenti nella sua opera, ma era anche uno scrittore realista, pittore fedele della società in cui viveva.

Per lui in fondo la morte è “una funzione biologica fra le altre, quella che segna, con razionalità scientifica, la distinzione fra vivente e non vivente” [PELLEGRINI ERNESTINA, Necropoli immaginarie, Firenze, Le Lettere, 1996, pag. 32], ma, al tempo stesso, essa riscatta quasi sempre il personaggio. Balzac subisce ancora il fascino del mito eroico, anche se ormai non si tratta più di valorosi combattenti o prodi cavalieri ma di borghesi in ascesa che lottano per i loro interessi personali, perciò descrive il moribondo (laddove si tratti di un personaggio principale) con una sorta di grandezza che gli riconsegna la dignità propria dell’essere umano. E’ pur vero che Balzac spesso riferisce di particolari fisiologici per niente eroici, ma proprio questi dettagli, contrapposti alla forza di grandi sentimenti, aumentano lo profondità dei personaggi. Essi elevano ulteriormente la statura morale di personaggi come il Père Goriot o enfatizzano la scelleratezza di quelli come Grandet. “Nessun personaggio balzacchiano […] è insignificante o ridicolo davanti alla morte” [PELLEGRINI ERNESTINA, Necropoli immaginarie, Firenze, Le Lettere, 1996, pag. 32]. Ma è anche vero che spesso, contemporaneamente all’elevare il singolo personaggio, egli mostra la degenerazione della società evidenziando anche le disuguaglianze di fronte alla morte attraverso le specie sociali rappresentate.
Seguendo il modello romantico, Balzac amava le strazianti scene d’addio, tanto che arriva quasi a disapprovare, attraverso le parole del dottor Benassis, chi non viene annientato fisicamente e moralmente dalla morte delle persone care [Le Médecin de campagne, pag. :  «Vous le voyez, ici la mort est prise comme un accident prévu qui n’arrête pas le cours de la vie des familles, et le deuil n’y sera même porté. […] Dans les campagnes, le deuil n’existe donc pas […] Cet oubli n’est-il pas une grande plaie ? »]. “Il aime, au prix parfois d’effets un peu faciles, les circonstances où peuvent se faire jour des réactions affectives, graves, vives, prolongées” [BOREL JACQUES, Médicine et psychiatrie balzacienne. La science dans le roman, Paris, Librairie José Corti, 1971, pag. 61]. Impossibile negarlo…

I suoi personaggi, tipicamente borghesi nonostante la sua nostalgia aristocratica, sono attaccatissimi alla vita e pieni di ambizioni e desideri.
Balzac è convinto che qualsiasi passione portata all’eccesso, sia essa virtuosa o immorale, determini l’annientamento dell’essere umano. E’ sicuro che il pensiero, l’idea fissa, possa effettivamente portare alla morte attraverso il suo potere devastante e propone come spiegazione, senza ovviamente poterne dare una dimostrazione scientifica, la costituzione stessa del pensiero che, secondo lui, è portatore di una carica di elettricità magnetica. E’ l’idea fissa che diventa distruttrice: si vedano per esempio i casi di Balthasar Claës e di Louis Lambert, ossessionati dalle loro ricerche, di Papà Goriot, col suo amore assoluto per le figlie, di Grandet e della sua avarizia, di Frenhofer, della cugina Bette, di Pons, ecc. Ognuno di loro è dominato da una passione divorante, sono tutti dei monomaniaci. Questa concezione balzacchiana è espressa senza mezzi termini nell’introduzione agli Études Philosophiques scritta nel 1834 da Félix Davin sotto il diretto controllo dell’autore: “… il est évident que M. de Balzac considère la pensée comme la cause la plus vive de la désorganisation de l’homme, conséquemment de la société. Il croit que toutes les idées, conséquemment tous les sentiments, sont des dissolvants plus ou moins actifs. Les instincts, violemment surexcités par les combinaisons factices que créent les idées sociales, peuvent, selon lui, produire en l’homme des foudroiements brusques ou le faire tomber dans un affaissement successif et pareil à la mort; il croit que la pensée, augmentée de la force passagère que lui prête la passion, et telle que la société la fait, devient nécessairement pour l’homme un poison, un poignard. […] La vie décroît en raison directe de la puissance des désirs ou de la dissipation des idées”

Che si tratti di borghesi o di aristocratici, tutti i personaggi balzacchiani aspirano ad elevarsi, a migliorare la loro posizione, i loro beni, il loro benessere, e la loro intera felicità dipende esclusivamente dalla realizzazione della loro passione. Sono comunque tutti dei personaggi insoddisfatti della loro vita, del loro stato. Sembrano confondersi con la loro stessa passione che è la loro ragione di vita, ne diventano totalmente schiavi.
Balzac vive in una società in piena espansione, in cui gli individui possono avere maggiori aspirazioni grazie alle nuove scoperte tecnologiche, ma in cui, allo stesso tempo, le passioni e i desideri divenivano più pericolosi perché più passibili di fallimento. Secondo lui la società ha sviluppato troppo il sentimento naturale della felicità, l’aspirazione ad essa. La vita moderna è alienante e finisce col rendere soli gli individui. Balzac sembra quasi proporre una soluzione attraverso la Volontà, una volontà in grado di controllare le passioni, basata sulla consapevolezza di quanto il mondo possa corrompere. Essa può limitare i rischi.
Ad esempio, David Séchard, non avendo grandi pretese e accontentandosi di una vita semplice e modesta, sembra quasi essere ricompensato di questa saggezza dall’eredità che riceve e che gli permette di vivere meglio [Illusions perdues] .
Un altro caso significativo è quello rappresentato da Louise e Renée: la prima perennemente in cerca di nuove fortissime emozioni e la seconda che conduce invece una vita tranquilla al riparo dal turbinio delle passioni, ed è probabilmente più felice [Mémoires de deux jeunes mariées]. Lontano dalla follia delle passioni e dagli eccessi è possibile condurre una vita felice. Effettivamente è quantomeno singolare che Balzac proponga una simile soluzione, lui così appassionato e così frenetico. E infatti una volta scrisse a George Sand che avrebbe preferito morire con Louise piuttosto che vivere con Renée. Insomma, è solo un suggerimento di chi predica bene…

In ogni caso, nella Comédie Humaine, tra i pochi che si salvano dalla forza distruttrice delle passioni, oltre ad alcuni giovani, ingenui per età e perché ancora ignorano la realtà, ci sono gli idealisti, coloro che credono nella costruzione di un mondo migliore.

La morte nella Comédie Humaine / Alessandra Comuzzi; relatore Alan Freer [2004]. – Università degli Studi di Pisa: Facoltà di lingue e letterature straniere, A.A. 2003-2004

versione precedente >>