manifesti 1948
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Il concetto d’inconscio collettivo: gli archetipi / Luca Missero

Uno dei motivi di maggiore interesse per quanto riguarda l’opera di Jung, è senza dubbio l’introduzione del concetto d’inconscio collettivo. Con l’introduzione di tale concetto, Jung, opera un superamento della nozione d’inconscio com’era intesa da Freud; quest’ultimo sosteneva che l’inconscio non era altro che il punto dove convergevano i contenuti rimossi o dimenticati1. Jung chiama questo, inconscio personale, sostenendo che esso poggia su di uno strato più profondo, che non proviene dalle acquisizioni di natura personale, ma che è innato nell’uomo2. Questo strato più profondo è l’inconscio collettivo, e, deriva dalla possibilità di funzionamento che la psiche ha ereditato, cioè dalla struttura cerebrale ereditata3. Questo patrimonio comune a tutti gli uomini è il fondamento d’ogni psiche individuale.

L’inconscio, sostiene Jung, è precedente alla coscienza, ne costituisce il dato originario dal quale emerge la stessa, la quale non si edifica che secondariamente sull’attività dell’anima e quest’attività risulta dal funzionamento dell’inconscio4. Per Jung è indiscutibile come non sia la coscienza quella che regola principalmente l’attività dell’uomo, proprio perché una buona parte della nostra vita la passiamo in uno stato d’incoscienza. Jung chiama “collettivo” questo strato più profondo dell’inconscio poiché, esso è di natura universale e cioè ha contenuti e comportamenti che sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui5.

In questi contenuti è rappresentato il deposito dei tipici modi di reagire dell’umanità in situazioni di natura genericamente umana, indipendentemente da quali siano le differenziazioni etniche, storiche o di qualsiasi altro genere6. E’ dunque presente e sostanzialmente identico in tutti gli uomini, un sostrato psichico comune, di natura sovrapersonale.

I contenuti dell’inconscio personale sono principalmente i cosiddetti “complessi a tonalità affettiva”, mentre i contenuti dell’inconscio collettivo sono invece gli “archetipi”7 Jung così li introduce: il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell’idea d’inconscio collettivo, indica l’esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque.

Inizialmente, Jung li aveva definiti Urbilder , ovvero immagini primordiali, a tale definizione che risale al 1912 si aggiunge quella definitiva del 1919, archetipo appunto.8 Jung è indotto nella scelta del termine dalle “idee principales” di Sant’Agostino poiché esse contengono in forma chiara il contenuto e il senso: “… Les idees principàles (idee originarie) sono forme stabili e immutabili […] che non sono state create e perciò sono eterne e si presentano nello stesso modo, e che sono contenute nell’intelligenza divina…”9

Successivamente, nel 1946, Jung opera un’importante distinzione tra l’“archetipo in sé”, cioè l’archetipo potenzialmente insito in ogni struttura psichica, non percepibile; e l’archetipo attualizzato, divenuto percepibile, entrato nel campo della coscienza e che si presenta in seguito come immagine archetipica. In questo caso la sua manifestazione varia in maniera costante al mutare delle condizioni entro le quali si pone in essere. Ci sono, per così dire, immagini archetipiche che diventano efficaci solo in determinate circostanze, dopo essere giaciute nell’inconscio fino ad un attimo prima. L’archetipo rappresenta in sostanza un contenuto inconscio che viene modificato attraverso la presa di coscienza proprio per il fatto di essere percepito, e ciò avviene secondo la coscienza individuale nella quale si manifesta10.

L’archetipo non possiede solamente la possibilità di rappresentarsi in un modo statico, ad esempio come immagine primordiale, ma ha anche un modo dinamico processuale, per esempio nei processi di differenziazione della coscienza. Si possono persino stabilire una successione degli archetipi, a seconda che essi riguardino un numero più o meno alto di persone11. Jung chiama gli archetipi “organi psichici” e sostiene che il significato ultimo può essere circoscritto e non descritto.12

Gli archetipi sono determinati nella forma, ma non nel contenuto. Tanto più l’archetipo non è preciso nella forma, quanto più profondo è lo strato dell’inconscio collettivo da cui si presume che sorga; uno strato nel quale i simboli non esistono che come sistema di assi, privi ancora di contenuto individuale, non sono ancora differenziati dal sedimento della catena infinita dell’esperienza individuale, che essi, ad ogni modo, precedono.13

Se il problema è legato al tempo e alla personalità, sarà molto complicata la veste con la quale l’archetipo si esprime, ma al contempo essa sarà anche più delimitata e precisa; al contrario, quanto più impersonale e generale è ciò che l’archetipo vuole illustrare, tanto più semplice e non delineato sarà il suo linguaggio14. Possiamo dire che il numero degli archetipi non è infinito. Nella vita si presentano tanti archetipi, quanto è il numero delle situazioni tipiche. La ripetizione continua ha impresso queste esperienze nella nostra costituzione psichica, ma non lo ha fatto nella forma di immagini dotate di contenuto, bensì, inizialmente, come “forme senza contenuto” atte a costituire la possibilità di un certo tipo di percezione e azione. L’archetipo si attiverà qualora si presenti una situazione che gli corrisponde e si sviluppa una strada, che si apre un varco a fronte di ogni ragione o volontà15

Nel linguaggio dell’inconscio, che risulta essere un linguaggio prettamente figurato, gli archetipi appaiono in forma personificata o simbolica. Quello che viene espresso da un contenuto archetipico è una similitudine. Non ci si può tuttavia illudere che tutte le similitudini possano chiarire efficacemente l’archetipo e perciò questo possa essere tolto di mezzo. Anche il migliore dei tentativi di spiegazione non è altro che una traduzione, in un altro linguaggio figurato16. Il numero degli archetipi costituisce il contenuto proprio dell’inconscio collettivo. Non è numero illimitato, perché coincide alla possibilità di tipiche esperienze fondamentali vissute dall’essere umano fin dai tempi più remoti.

Per Jung la somma degli archetipi corrisponde alla somma di tutte le latenti possibilità della psiche umana: un’inesauribile materiale di antichissime cognizioni su profondi nessi esistenti fra Dio, l’uomo e il cosmo che lo circonda. I motivi delle immagini archetipiche li ritroviamo in tutte le mitologie, favole, tradizioni religiose e in tutti i misteri. L’archetipo, fonte primordiale dell’esperienza umana universale, giace nell’inconscio, e di qui invade in maniera potente l’ambito della nostra vita17.

Riassumendo quanto detto in precedenza, la tesi di Jung, così come egli la descrive, è che, oltre alla coscienza immediata, che è di natura del tutto personale, esiste un secondo sistema psichico, che ha però una natura collettiva, universale e impersonale, che è comune a tutti gli individui. Questo inconscio collettivo, non deriva dall’esperienza, non si sviluppa individualmente, ma è ereditato. Consiste in forme preesistenti che sono gli archetipi, che possono divenire coscienti solo al momento che vengono “attivati” e danno una forma ben precisa a determinati contenuti psichici18.

I simboli

Sappiamo come Jung, per dimostrare l’esistenza degli archetipi, prendeva in considerazione determinate forme psichiche che producono gli archetipi. Egli aveva trovato queste forme principalmente nei sogni, cogliendone di essi l’aspetto della libertà, della spontaneità, della psiche inconscia, e tutti quegli elementi che non essendo inquinati da un’intenzione cosciente, si esprimevano in tutta la loro forza senza i vincoli imposti dalla coscienza19. Nella interpretazione Junghiana dei sogni, ha un’importanza fondamentale il fenomeno psichico generalmente definito con il concetto di simbolo.

Abbiamo già detto come l’archetipo sia costituito per Jung, da dei prototipi di insiemi simbolici così profondamente iscritti nell’inconscio, da costituirne la struttura. Gli archetipi si manifestano come delle strutture psichiche quasi universali, innate o ereditate; una specie di coscienza collettiva che si esprime attraverso dei simboli particolari, carichi di una grande energia20. Queste rappresentazioni possono cambiare, almeno apparentemente, a causa delle diversità di cultura e di periodo storico, ma hanno tutte una medesima struttura, un insieme identico di relazioni; nondimeno è necessario non tralasciare l’importanza del condizionamento individuale, non bisogna cioè trascurare la realtà dell’individuo, la situazione che egli vive. Il simbolo archetipico collega l’universale all’individuale. La riduzione che si realizza attraverso l’analisi, che raggiunge gli elementi fondamentali e li universalizza, deve accompagnarsi ad un’integrazione di ordine sintetico e individualizzante. I simboli hanno un carattere espressivo e impressivo, poiché da un lato esprimono in immagini i processi intimi, e dall’altro canto dopo essere divenuti immagine, dopo essersi materializzati, imprimono il loro senso su tali processi, dando così ulteriore impulso alla corrente psichica21. Prima di continuare la discussione sul simbolo, occorre precisare quale sia il rapporto e le differenze che intercorrono fra il segno e il simbolo. Afferma Jung: “A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente distinto dal concetto di mero segno. Significato simbolico e significato nell’ambito della semeiotica sono due cose completamente diverse”. Non è espressione simbolica ciò che è analogia o denominazione abbreviata, ma, bensì, si può definire simbolico tutto quello che ci riferisce nella maniera più esauriente di una cosa della quale si conosce ancora poco22. La parola tedesca che equivale a simbolo è Sinnbild, ed esprime con chiarezza la duplice origine del suo contenuto: il significato (Sinn) è di pertinenza della coscienza, e dunque del razionale, l’immagine (Bild) è di pertinenza dell’inconscio e dell’irrazionale. Il simbolo ha dunque la qualità per rendere conto della totalità dei rapporti che si svolgono all’interno della psiche, ad esprimerne le implicazioni e i contrasti, oltre che ad agire su di essi23. Afferma Jung, che il fatto che una cosa sia un simbolo, oppure no, dipende anzitutto dalla coscienza della persona che lo osserva. Per alcuni un oggetto apparirà come un simbolo per altri solamente un segno. Il simbolo non è né allegoria, né un segno; bensì l’immagine di un contenuto che trascende la coscienza24. Il simbolo rinvia a qualcosa di fondamentalmente sconosciuto. La connessione tra simbolo e ignoto è così profonda che quando un contenuto simbolico si rende noto e si lascia interpretare in termini concettuali, perde le sue caratteristiche di simbolo per divenire segno25. Il simbolo contiene un’eccedenza di senso rispetto al senso conosciuto. Una volta annullata questa distanza, la degenerazione è fatale, il simbolo muore e degenera in segno.

Asserisce ancora Jung che, finché il simbolo è vivo, è la migliore espressione possibile di un fatto, ed è vivo solamente finché è gravido di significato. Quando questo viene alla luce e si scopre la formula presagita, il simbolo muore e conserva solo un valore storico26. Per mantenere la sua vitalità il simbolo deve superare l’interesse intellettuale ed estetico, e suscitare anche una forma di vita; è vivo solamente il simbolo che è veicolo di un presagio non ancora riconosciuto, in quel momento induce l’inconscio alla partecipazione genera la vita e stimola lo sviluppo27. Il simbolo si rivolge sia alla parte cosciente, sia all’inconscio, possiamo spiegarlo e sentirlo, ma esso porta comunque all’interno di noi un sovrappiù che guida la nostra razionalità al di fuori dei percorsi abituali dell’intelletto.

Il simbolo, insomma, non rinvia a nulla di noto: Un simbolo non comprende e non spiega, ma accenna, al di là di sé stesso, a un senso ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro linguaggio attuale non potrebbero adeguatamente esprimere.Afferma Jung in “Geist und Leben” (spirito e vita) nel 1926. Il simbolo è un termine, un nome, un’immagine, che, anche quando appartiene alla vita quotidiana, e dunque risulta essere a noi del tutto familiare, possiede al suo interno delle implicazioni che si vanno ad aggiungere al suo significato noto e convenzionale. Lo spirito che cerca di scoprire cosa vi sia al di là dell’evidenza, cosa si nasconda d’ignoto, è fatalmente condotto verso idee che stanno al di fuori, oltre, al di là della ragione intesa come razionalità.

La presentazione di termini simbolici avviene per mano dell’uomo proprio per l’incapacità di esprimere dei concetti che vanno al di là della ragione umana, e che non sapremmo chiarire o comunicare agli altri e a noi stessi in alcun modo. L’uomo tenta di esprimersi attraverso i simboli inconsapevolmente, ma anche spontaneamente per cercare di esprimere l’ineffabile e il non altrimenti comprensibile.28 La funzione di risonanza di un simbolo è attiva nella misura in cui il simbolo si accorda con la società, con l’epoca, con la circostanza e con la spiritualità di una persona.29 Il simbolo deve essere legato dunque, ad una psicologia collettiva determinata e la sua esistenza non può dipendere esclusivamente da una coscienza individuale. Il rapporto fra il sociale e l’individuale può essere armonizzato dal simbolo. Una delle sue funzioni è anche quella di collegare e armonizzare i contrasti. Jung chiama questa funzione “trascendente”; cioè la proprietà che hanno i singoli di stabilire una connessione fra due forze antagoniste, e di superare le contrapposizioni e di aprire così la strada al processo di progresso della coscienza.30 Attraverso questa funzione trascendente dei simboli si liberano, si collegano e si uniscono, forze vitali antagoniste ma non incompatibili che sono in grado di unirsi se non in un processo di sviluppo integrato e simultaneo31. Per quanto i simboli ci appaiono di difficile comprensione nella loro totalità, essi possiedono che una realtà, che ha una funzione attiva e importante nella vita immaginativa. Si forma una logica originale e non riducibile alla dialettica razionale, Jung sostiene che: “Il mondo parla attraverso il simbolo[…] e più il simbolo è arcaico e profondo[…] più diventa collettivo e universale. Più è astratto, differenziato e specifico più si avvicina alla natura dei fatti unici32 Il simbolo, non è mai “questo” o “quello”. Si può dire che il simbolo è questo o quello nel senso che fa essere questa o quella cosa, nel senso che la eventua33.

Jung lamenta la povertà del linguaggio attuale e si auspica la creazione di un nuovo linguaggio, in modo che quest’ultimo possa dischiudere i rapporti che vanno oltre le parole della ragione. Quest’ultimo dice solamente come sono le cose, occorre trovare un linguaggio che non dice, ma ritorna alle cose originarie, dal detto a ciò che non è detto, e che dal detto è richiamato34. Jung rinuncia, di fatto, ad una sistemazione dottrinaria che porti ad un’interpretazione dei simboli, perché egli ritiene la lettura del simbolo come ritorno al fondo nascosto. L’esegesi35 Junghiana è questo tentativo verso un ritorno promosso dalla convinzione che, ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dal simbolo, non costituisca la sconfitta della coscienza, ma, anzi, il terreno adatto alla coscienza per favorirne lo sviluppo e la completamento36.Ritornando per un attimo sulla questione che riguarda l’efficacia del simbolo, si può aggiungere che un simbolo è realmente vivo solamente quando esso rappresenta, per chi lo osserva, l’espressione migliore e più alta possibile di qualcosa di presentito e ancora non conosciuto. Solo così il simbolo può generare una partecipazione inconscia. Quanto più il simbolo è vivo, più formulerà un aspetto essenziale dell’inconscio, e tanto più tale aspetto sarà diffuso, tanto sarà più universale l’azione del simbolo. Perché accada questo, il simbolo deve provenire da tutto quello che c’è di più complicato e differenziato in una data epoca. Un simbolo per potere avere effettivamente influenza su una moltitudine di soggetti, dovrà abbracciare i soggetti con un qualcosa di facilmente accessibile, di primitivo affinché la sua presenza sia al di là di ogni ragionevole dubbio. Solo se il simbolo abbraccia questo aspetto e lo esprime nel modo più profondo ed elevato la sua azione si può estendere a tutti. In questo consiste l’azione potente e liberatrice di un simbolo sociale37.

Il successo riportato dalla psicoanalisi, ha posto in grande rilievo alcune parole chiave quali: immagine, simbolo e simbolismo. La constatazione di quale sia stata l’importanza del simbolismo nella mentalità delle società primitive, ha rivelato la medesima importanza per le società tradizionali. Il superamento dello scientismo, del positivismo, del razionalismo in genere, è avvenuto sia in campo filosofico, ma anche in campo artistico, soprattutto con le ricerche del surrealismo38. L’approdo del simbolismo coincide di fatto con la comparsa dell’Asia nella storia occidentale, anche se questo sincronismo non viene del tutto da sé. Il riconoscimento del simbolo come mezzo conoscitivo avviene allorquando, l’Europa occidentale, si rende conto di non essere più la sola a fare la storia e si emancipa da essa considerando anche le culture altre, per non rimanere rinchiusa in un criterio prettamente etnocentrico.

La riscoperta dell’importanza del simbolismo per il pensiero arcaico ha fatto si che ci si potesse rendere conto, quanto, quei simboli che appartengono alla vita spirituale, siano impossibili da cancellare, laddove, a fronte di mutilazioni e degradazioni e smascheramenti di ogni tipo, di fronte all’inarrestabile cambiamento d’insegna, essi abbiano resistito così tenacemente non piegandosi allo scorrere del tempo39. Il pensiero simbolico, non è più un patrimonio esclusivo del bambino, o del poeta o dello squilibrato, come un tempo si credeva, esso è insito nel genere umano, cela all’interno alcuni aspetti della realtà, quelli più profondi e più reconditi e non conoscibili altrimenti40.

Le creazioni mitologiche e simboliche non sono creazioni irresponsabili della psiche, ma, anzi, esse rispondono a questa esigenza di mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere. Perché l’uomo non è solamente “storico”, e quando egli evidentemente non lo è, non sprofonda nella brutalità del suo essere animale, ma ritrova le immagini primordiali, i sogni e le fantasticherie, di un “paradiso perduto”41. Se Freud ha avuto il grande merito di individuare l’inconscio personale, Jung ha scoperto l’inconscio collettivo e gli archetipi ad esso connesso. Facendo ciò, ha contribuito a creare una nuova chiave di lettura con la quale rianalizzare i sogni, i miti e le visioni42.

 

 Conclusioni

Questa descrizione del pensiero junghiano, della sua teoria riguardante la presenza di un inconscio collettivo comune più o meno a tutti gli esseri umani, che sottende all’inconscio personale costituendo di esso il suo substrato, dell’introduzione del concetto di archetipo, la riconosciuta importanza dei simboli, ci può dunque dare una chiave di lettura attraverso la quale interpretare le modalità della campagna elettorale del 1948.

In quell’occasione, il clima di grande euforia, di ansia, paura e di profonda volontà di partecipazione alla vita democratica del paese, sembra si, innescarsi a seguito dello svolgersi degli accadimenti storici, dalle generali difficoltà che la popolazione deve affrontare, dal peso di una guerra persa dal quale il paese sembra non riuscire ad affrancarsi, da una situazione politica internazionale che sembra avere dei paurosi inneschi con la politica interna, ma anche per le modalità della campagna elettorale, laddove i simboli utilizzati liberano gli archetipi dell’inconscio, impadronendosi delle coscienze individuali e collettive e mescolandosi così, sia al vissuto della società, sia a quello individuale.

Secondo questo punto di vista, sarebbe più facile intendere in maniera corretta, la forte e reiterata presenza di proclami che si rifanno a valori universali, piuttosto che ad un piano programmatico atto alla ricostituzione di un ordine politico, sociale ed economico1.

Ancora più chiara appare la spinta alla partecipazione alla vita politica del paese, come se d’un tratto si fossero liberate forze sconosciute alla coscienza, ma interiorizzate nell’inconscio collettivo, quasi fosse un’energia che trae origine da motivi sconosciuti, ma fortemente radicati nell’animo della collettività.

La successiva analisi dei manifesti, dunque, non sarà basata, ad una analisi epistemologica e nemmeno ad una valutazione della realizzazione artistica del manifesto, ma cercherà di individuare gli elementi simbolici presenti nella grafica di allora, considerandone, dunque, l’aspetto psicanalitico. Si cercherà di percepire all’interno di ogni singolo manifesto la presenza degli archetipi dell’inconscio collettivo, per decretare il valore simbolico contenuto in essi.

1 L’idea di una “epidemia archetipica” della complicazione con i vissuti sociali ed individuali, della degenerazione in una schizofrenia collettiva è contemplata in un saggio di Claudio Bonvecchio: “Sangue e aurora: ordine politico e ordine simbolico”, nel quale, l’autore prende in analisi il periodo storico della rivoluzione francese, analizzando i contenuti simbolici inerenti a quell’episodio, che viene definito, come: “un fenomeno di schizofrenia collettiva, il primo, forse, di una lunga serie di schizofrenie collettive.

1 C.G. Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Torino, 1980

2 Op. cit., p.3

3 Op. cit., p. 22

4 Op. cit., p. 22

5 Op. cit., p.3

6 Op. cit., p.23

7 Op. cit., p.4

8 Op. cit., p. 58

9 Op. cit., p. 59

10 Op. cit., p. 5

11 Op. cit., p. 58

12 Op. cit., p. 63

13 Op. cit., p. 64

14 Op. cit., p. 65

15 Op. cit., p. 49

16 Op. cit., p. 66

17 Op. cit., p. 68

18 Op. cit., p. 44

19 Op. cit., p. 49

20 J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Milano, 1997, p.XIV

21 Op. cit., p. 120

22 Op. cit., pp. 483 – 484

23 Op. cit., p. 123

24 Op. cit., p. 484

25 U. Galimberti, La terra senza il male, Milano, 1988, p. 63 – 64

26 Op. cit., p. 484

27 Op. cit., p. 486

28 Op. cit., pp. 20 – 21

29 Op. cit., p. 496

30 Op. cit., p. 497

31 Op. cit., p. 498

32 Op. cit., XXXIV

33 Op. cit., p. 201

34 Op. cit., p. 202

35 Una definizione completa del concetto di “esegesi” viene formulata da H. Corbin contenuta in “Avicenne et le recit visionnaire”: Sotto l’idea di esegesi si annuncia quella di una Guida (l’esegeta), e sotto l’idea di exegesis traspare quella di un esodo, di una “uscita dall’Egitto” che è un esodo fuori dalla metafora e dalla schiavitù della lettera, fuori dall’esilio e dall’occidente dell’apparenza essoterica, verso l’idea dell’idea originaria e nascosta. In questo caso l’esegesi Junghiana.

36 Op. cit., p.206

37 Op. cit., p. 487

38 M. Eliade, Immagini e simboli, trad. it., Milano, 1998, p. 13

39 Op. cit., p.15

40 Op. cit., p.17

41 Op. cit., p. 35

42 M. Eliade, Spezzare il tetto della casa, Milano, 1997, p. 35