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L’informatica per la storiografia quantitativa

Nel corso degli anni Sessanta l’informatica sposa la Storia attraverso la storia quantitativa, già avviata in maniera sistematica dagli anni Trenta per lo studio della storia dei prezzi ed ora estesa alle tematiche riguardanti il campo della storia economica, della storia sociale e soprattutto alle indagini di demografia storica tramite l’uso di modelli matematici e strumenti di calcolo [1].

Il differente uso dei dati ed i diversi orientamenti della comunità scientifica permettono di parlare di storie quantitative al plurale, tutte accomunate dall’uso del calcolatore e dall’introduzione di metodologie vicine alle scienze sociali, in grado di offrire nuovi quadri teorici di riferimento con cui confrontarsi. In particolare, si individuano due filoni di ricerca storica supportata dall’informatica: uno di matrice americana concentrata sulla storia demografica, politica ed economica, con indagini retrospettive fondate su modelli matematici appartenenti alla storia economica da cui il nome “new economic history” o cliometria; ed un percorso europeo guidato dal movimento degli Annales orientato verso gli studi di storia sociale. In questo ultimo caso, l’informatica diviene uno strumento per il gruppo di studiosi che contribuì a dar vita a quella che Peter Burke chiama la “rivoluzione storiografica francese” [2]. L’elaboratore elettronico permise, infatti, di proseguire gli studi di storia seriale avviati ad inizio secolo ed estesi alle scienze sociali attraverso il confronto con documentazione non necessariamente quantitativa, da cui estrarre una serie di dati utili a definire fenomeni e tendenze di lungo periodo su economia, società e ‘sistemi culturali’ nel loro complesso. [3]

E’ dunque in questo contesto che il ricorso all’informatica diviene indispensabile per rispondere agli interrogativi posti dall’indagine storica su lungo corso, attraverso confronti e sovrapposizioni di corpose mole di dati difficilmente gestibili con il solo lavoro d’archivio. Il calcolatore informatico utilizzato per queste ricerche è il famoso mainframe, dall’IBM 360 ai nazionali prodotti dell’Olivetti, un enorme macchinario ospitato in centri appositi dotati di personale specializzato. I limiti di rigido filtraggio necessario per la scelta degli elementi di ricerca e la formazione tecnica del personale addetto all’immissione dati furono un primo ostacolo all’interpretazione delle esigenze della ricerca storica, caratterizzata in questa fase dalla mancanza di interoperbilità tra storico ed elaboratore e dall’impossibilità di intervenire per modificare parametri preimpostati. [4] Infatti, il caricamento dei dati attraverso schede perforate (schede ibm a 80 colonne) avveniva per lotti contestualmente al caricamento dei programmi di elaborazione, come ad esempio il pacchetto SAS (Statistical Analysis Sistem) o SPSS (Stastical Package for the Social Sciences) nato per soddisfare le esigenze degli scienziati sociali, ma largamente utilizzato dalla ricerca storica. [5]

In Italia tale modalità fu applicata tra il 1966 ed il 1972 alle ricerche sulla storia della famiglia e della società toscane nel XV secolo attraverso l’elaborazione elettronica del Catasto fiorentino del 1427 [6], dal quale emersero le problematiche comuni alla ricerca storica attraverso il calcolatore: la traduzione numerica degli elementi contenuti nelle fonti per una lettura univoca e la codifica della documentazione, dunque la difficoltà di costruire un modello di rappresentazione con entità e attributi, fedele alla realtà delle fonti e comprensivo anticipatamente delle possibili variabili.[7]

Un ulteriore ostacolo all’affermazione del mainframe come strumento di ricerca storica furono certo le ingenti spese che richiedeva il suo funzionamento, per questo di norma veicolate per progetti di ricerca di grandi dimensioni, dai quali però non sempre si ottenevano i risultati soddisfacenti come lamentò Lawrence Stone in un celebre intervento del 1976 [8] e come dimostra l’ambizioso progetto di ricostruzione totale delle comunità dell’Inghilterra del 1600 attraverso fonti d’archivio, iniziato nel 1971 da Alan Macfarland ed arrestato nel 1972 per mancanza di fondi [9] Furono dunque la scarsa flessibilità dello strumento informatico e la mancanza di “feedback con le fonti” inteso da Stone come “modo di pensare normale dello storico, che verifica le sue intuizioni sui dati, a loro volta generatori di nuovi dati” [10], i maggiori imputati dello stallo che il rapporto tra storia e computer vide alla fine degli anni Settanta.

 


[1] Itzcovitch, [1996], in Soldani – Tommasini, [1996], p. 32.

[2] Burke, [1999], p. 3.

[3] Burke, [1999], p. 56-96.

[4] Itzcovitch, [1996], in Soldani – Tommasini, [1996], p. 36-43.

[5] Itzcovitch, [1993], p. 94-97.

[6] Online Catasto of 1427, [2002].

[7] Vitali, [2004a], p. 13-14

[8] Stone, [1987], p. 32-47.

[9] Rowland, [1991], p. 704.

[10] Stone, [1987], p 31.

 

Tratto da

Le biblioteche digitali per gli studi medievistici / Stefania Manni tesi di Laurea Magistrale discussa all’Università di Ca’ Foscari nel 2005, relatore Riccardo Ridi. LS/5 ARCHIVISTICA E BIBLIOTECONOMIA

 

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