Codice-Cavense
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Prassi del potere

La storiografia interessata agli sviluppi politici e istituzionali della Langobardia minor ha raramente riconosciuto un legame familiare tra coloro che occuparono la carica di duca, poi di principe, nel potentato beneventano. Le vicende politiche interne al ducato tra VIII e IX secolo sembrerebbero così solo un caotico susseguirsi di nomi e alleanze tra potenti, senza un filo conduttore se non l’avidità di potere dell’aristocrazia longobarda. A ben vedere però in questi limiti temporali della storia beneventana sono rintracciabili due distinte linee dinastiche principali che si succedono.

La prima dinastia beneventana

La prima fu quella di Arechi I (590-758) che sopravvisse alla morte di Aione, suo unico figlio, attraverso la successione dei “figli adottivi”, i friulani Radoaldo e Grimoaldo, indicati dallo stesso capostipite in punto di morte come suoi eredi.[1] PD. HL TEXT

Il primato della dinastia cominciò a vacillare a partire dalla morte di Romualdo II, figlio del friulano Grimoaldo, a causa della giovane età del successore, Gisulfo, che aprì le porte alle usurpazioni del trono da parte degli uomini di palazzo. La dinastia che faceva capo ad Arechi I, superò le crisi interne di questi anni solo grazie agli interventi del re di Pavia Liutprando, il quale, anni prima, si era legato alla dinastia beneventana dando in sposa la propria nipote Guntberga al duca Romualdo II.[2]

Liutprando intervenne in favore del nipote Gisulfo II una prima volta nel 733, per spodestare un tale Audelais (731/2), che nel frattempo aveva usurpato il trono al discendente di Arechi I, e sostituirlo con un altro suo nipote, Gregorio (732-739/40), mentre il piccolo Gisulfo veniva condotto a Pavia. Un secondo intervento del re si ebbe alla morte di Gregorio, quando il potere fu nuovamente conteso dalla fazione che raccoglieva i consensi dei funzionari di palazzo, ora raccolti intorno al loro candidato Godescalco (739-740/42). Questa volta però Liutprando restituì il trono al legittimo erede ormai in età adulta, sicuro della riconoscenza di quest’ultimo.

A Benevento, il giovane duca, godeva ancora dell’appoggio dei suoi fedeli,[3]PD HL TEXT certo gli stessi che anni dopo appoggiarono la sua vedova, la principessa Scauniperga, nel ruolo di tutrice del figlio Liutprando, duca di Benevento dal 751. La tenera età dell’erede del duca Gisulfo II diede nuovamente l’occasione di interferire con la linea dinastica del primo Arechi ai cortigiani beneventani, che sostituirono la regina madre con uno di loro, Giovanni gastaldo e referendario.[4]

 La seconda dinastia beneventana

La prima dinastia fu soppiantata definitivamente dall’intervento di un altro re longobardo, Desiderio, il quale punì la disinvolta politica anti-pavese condotta dal referendario Giovanni, insediando il genero Arechi II come duca di Benevento.[5]

Il nuovo duca, principe dal 774, pose le basi per la seconda dinastia utilizzando, come la prima, uomini vicini alla famiglia in mancanza dell’erede di sangue. E’ il caso di Sicone, creatura di Arechi II, che nell’817 si pose di fronte ai maggiorenti come alternativa al potere del palazzo, rappresentata in quel momento dal tesoriere usurpatore Grimoaldo IV, sul trono dall’806.[6] Chron. Sal.

Assassinato l’usurpatore, Sicone divenne duca proprio in ragione della familiarità con la linea principesca di Arechi II, come è ricordato nel suo epitaffio.[7]

Nell’848, con la morte del figlio di Sicone, il principe Sicardo, cadde anche la seconda dinastia beneventana ed il potere fu conteso da altri due uomini di corte, Radelchi ed Adelchi. La vittoria del primo fu all’origine della guerra civile che portò alla divisione del principato.

 Il principio dinastico

Da questa rapida ricostruzione dei fili principali della storia del ducato, poi principato di Benevento, il potere sembra legittimato dall’appartenenza ad un gruppo socialmente definito, la famiglia del principe.

La successione pare dunque regolata dal principio dinastico cui partecipano i figli adottivi per supplire alla mancanza degli eredi diretti. Un diritto scontato quello di sedere sul trono per i discendenti del duca, tanto da non dover essere confermato dal reggente in vita. La regola viene tradita dall’unica eccezione rappresentata dall’episodio in cui Arechi I indica come suoi eredi i due ospiti friulani, ma la parola del duca è in questo caso necessaria perché si tratta di scavalcare il figlio naturale ancora in vita. Necessaria ma non sufficiente a convincere quel “popolo” che sembra rispettare solo l’ordine di legittimità per la successione al trono e per ciò acclamò duca Aione, il figlio naturale di Arechi, nonostante fosse demente, e solo dopo la sua morte riconobbe gli uomini indicati dal duca morente.

Dunque già dalla metà del secolo VIII sono presenti delle regole che determinano la successione al potere nel ducato beneventano. Tale condizione favorì la creazione di un’organizzazione statale imperniata sulla figura del duca. Intorno a lui ruotavano funzionari impegnati, a vari livelli, nella gestione burocratica e amministrativa del ducato che sembrano entrare in scena solo quando il potere dinastico si indebolisce, cioè quando il potere legittimo è nelle mani di bambini. Assistiamo così alle prese di potere di agenti del palazzo, soprattutto tesorieri, una carica che consentiva l’accesso alle casse del ducato e che certo facilitava l’arruolamento di alleati.[8]

È evidente dunque che il potere antagonista del duca era rappresentato dal ceto burocratico, cioè da coloro che popolavano il palazzo nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche, uomini in grado di raccogliere intorno a sé consensi sufficienti a governare.[9] Il potere di questi ultimi fu inizialmente favorito dallo stesso duca che fece dei funzionari di palazzo gli unici beneficiari delle sue elargizioni, considerandoli come gli elementi più preziosi del ducato, tanto da trasformarli in un pericolo per la continuità dinastica ducale, almeno fino alla metà del IX secolo.[10]

Probabilmente siamo di fronte ad una prima sperimentazione dell’apparato amministrativo che lascia troppo spazio ad alcuni individui, permettendo loro di affermare un potere personale all’ombra del publicum. La correzione di tale meccanismo è evidente nella seconda metà dello stesso secolo, quando la carica di tesoriere fu assegnata ai soli consanguinei e le funzioni pubbliche ad uomini fidati.

 Prassi del potere da Benevento a Salerno

Ammesso il legame tra Sicone e la seconda dinastia beneventana si dovrà riconoscere il trasferimento di questa nel nuovo principato di Salerno. Qui, infatti, i maggiorenti beneventani che non riconoscono Radelchi come loro principe acclamarono Siconolfo, il secondo figlio di Sicone, liberandolo dall’esilio cui lo aveva costretto il fratello. Una scelta dettata dal diritto di sangue, tradito solo pochi anni dopo da colui che avrebbe dovuto tutelarlo, Pietro rector del piccolo erede di Siconolfo. Questo infatti, già dall’854, cercò di imporre un proprio lignaggio associando al trono il figlio Ademario.

Intanto la bicefalia del ducato, nata in seguito all’acclamazione di Siconolfo, vide il coinvolgimento di due famiglie beneventane destinate ad influenzare la genealogia dell’intera Langobardia minor.

Si tratta di due stirpi discendenti da due Dauferio, distinti dai soprannomi di “il Profeta” e di “il Muto o Balbo”, legate tra loro al tempo di Sicardo dal matrimonio di Roffrit, figlio di Dauferio il Profeta, ed una figlia del Muto. Roffrit divenne una figura di spicco all’interno del sacro palazzo di Benevento ricoprendo l’ambita carica di tesoriere durante la reggenza di Sicardo e trasmettendola poi al figlio Adelchi, lo stesso che troviamo con Radelchi nella contesa dell’839 per il titolo di principe di Benevento.

Forse con Adelchi era schierata anche la famiglia del Muto in ragione della parentela incarnata dal giovane. Questo spiegherebbe la divisione delle due consorterie dopo la sua morte. Infatti, da quel momento la famiglia di Dauferio il Muto pose la sua base per nuove imprese a Salerno, già residenza preferita dell’ultimo principe Sicardo. Qui si riunì con altri consanguinei intorno a Siconolfo, mentre Roffrit e tutta la famiglia del Profeta rimasero a Benevento. Nell’antica capitale la progenie del Profeta sembra giocare un ruolo primario nelle lotte per il potere ancora nel 900, quando un gruppo di partigiani discendenti da Roffrit e Pottelfrit aiutarono Antenolfo di Capua ad impadronirsi del principato.[11] A Salerno invece la famiglia del Muto arrivò al potere con uno dei suoi cinque figli, Guaiferio, principe nell’861, e lo mantenne fino al 977.

Guaiferio si impossessò del trono sbalzandone Ademario e, dopo un primo tafferuglio con il nipote Dauferio, riuscì ad insediare il suo lignaggio nel palazzo di Salerno.[12] Chron. Sal.

La permanenza del potere nelle mani degli eredi del nuovo principe di Salerno è anche qui regolata dal diritto dinastico e si mantenne nell’associazione al trono del primogenito. L’originalità della successione salernitana rispetto a quella beneventana non riguarda dunque la scelta del candidato, che ricade sempre su di un erede maschio naturale o adottato che sia, ma l’associazione al trono dei primogeniti. Con la primogenitura furono superate le lotte di fazione che avevano caratterizzato la politica del ducato beneventano portandolo alla divisione dell’849 e fu affermata la continuità di una linea dinastica che trovava consensi da parte di un’aristocrazia di nuova formazione, come era quella salernitana all’indomani della Divisio ducatus.

La fortuna della casata di Guiferio I è inoltre da attribuire alla presenza di eredi adulti, cosa che abbiamo visto mancare a Benevento, e dal rispetto delle regole dinastiche all’interno della famiglia stessa, tra i figli cadetti che mai attentarono al potere politico del fratello, accontentandosi di partecipare al potere con importanti funzioni pubbliche come quella di tesoriere.[13] Ma il successo della prima dinastia salernitana è certo da attribuire in primo luogo alla complessa struttura di solidarietà e parentele che costituì la base del potere dei Dauferidi, rappresentata dalla chiesa privata di San Massimo Confessore.

 Il seguito di Guaiferio

Dal momento in cui Guaiferio rientra dall’esilio, nell’852, sembra circondato da un gruppo di uomini a lui legati, i quali sottoscrivono di proprio pugno i documenti che lo riguardano. Alcuni di loro appartengono all’amministrazione del rector Pietro, come Sico e Ragimberto referendari, e come del resto lo stesso Guaiferio che ricopre la carica di conte.[14]CDC TEXT

L’attenzione si deve però concentrare su coloro che non presentano alcun titolo, ma che continuarono a figurare tra i testimoni di Guaiferio una volta divenuto principe. Prendiamo ad esempio Gaido e Pietro che nell’856 sottoscrivono un’offerta di terra fatta da un abitante di Barbattiano al conte Guaiferio; o Benedetto e Sicardo, presenti al fianco del futuro principe sin dal suo primo acquisto in territorio salernitano.[15] CDC TEXT Questi presenziarono anni dopo alla fondazione della chiesa privata di Guaiferio, a capo del principato da sette anni.[16] CDC TEXT

La loro presenza alla nascita della chiesa dinastica è da interpretare come testimonianza dello stretto legame tra Guaiferio I e questo gruppo di uomini che lo circonda. Il principe sembra non rinunciare mai alla loro compagnia. Vediamo, infatti, che alla stipula degli atti notarili riguardanti il principe, la presenza del gruppo più sopra individuato coincide con l’effettiva presenza di Guaiferio. Quando egli manca, come in due transazioni private condotte in sua vece da Walfuso, figlio di Walfrido, nessuno degli uomini visti altrove intorno a lui sottoscrive il documento.[17]
CDC TEXT

Gli uomini riconducibili a questa cerchia di “accompagnatori”, sono forse da identificare con i fideles di Guaiferio,[18] CDC TEXT che nelle fonti letterarie costituiscono il consilium del principe al fianco dei consanguinei.[19] Chron. Sal.

Durante il governo di Guaiferio alcuni di loro ricoprirono un ufficio pubblico:

 I fideles

Benedetto, figlio di Attione, compare nell’868 con il titolo di gastaldo e giudice in occasione di un’offerta di beni destinata al principe.[20] CDC TEXT Nell’869 Benedetto gastaldo, rappresenta la principessa Landelaica in un giudicato davanti ad altri fedeli del principe, qui in veste di gastaldi e giudici.[21]CDC TEXT

Sicardo, gastaldo e giudice, già in coppia con Benedetto nell’868, presenzia a più atti pubblici in funzione del suo titolo e come testimone.[22] CDC TEXT

Il caso di Pietro, è più difficile da seguire per la diffusione del nome all’epoca trattata che può facilmente indurre a confondere i tanti omonimi. Paolo Delogu propone di riconoscere il Pietro che spesso compare tra i sottoscrittori in Pietro marephais, il cognato di Guaiferio ricordato da Erchemperto, il che spiegherebbe ad un tempo la continuità delle sue mansioni nella pubblica amministrazione, tra il governo di Pietro e quello di Guaiferio, oltre alla presenza tra i domini di San Massimo.[23] CDC TEXT

Altri uomini appartenenti alla cerchia di Guaiferio si ripetono solo nelle file dei sottoscrittori, come Grimoaldo, presente dall’852 all’874 e Radelchis dall’853 all’869. Gaido testimonia in alcuni documenti riguardanti Guaiferio o la sua famiglia.[24] CDC TEXT Sebbene egli non sembri ricoprire alcun ruolo all’interno della pubblica amministrazione, in quanto non è mai definito gastaldo o giudice, è certa la sua vicinanza alla famiglia principesca dal momento che presenzia in alcuni documenti fondamentali per la storia della dinastia, come la ricordata fondazione della Chiesa di San Massimo e la sua libertà dall’episcopato.[25] CDC TEXT

Alcuni, come Lando e Dauferio, compaiono più tardi rispetto ai primi, ma subito accompagnati da titoli pubblici. Lando si firma come gastaldo nel documento che fissa le volontà di Guaiferio per la sua chiesa. Nella stessa rosa dei sottoscrittori di questo importante atto, egli è l’unico che aggiunge il titolo al suo nome. Probabilmente Lando è da identificare con Landenolfo gastaldo, che nel 903 sottoscrive un altro diploma, questa volta del principe Guaimario, per l’offerta fatta a San Massimo dal presbitero Angelo.[26] CDC TEXT

Un anno dopo Landenolfo gastaldo, sottoscrive al fianco dei figli di Guaiferio la nomina del nuovo abate di San Massimo Confessore. Quest’ultimo documento testimonia la vicinanza di Lando alla famiglia del principe. Egli era probabilmente un consanguineo, forse un parente della consorte capuana di Guaiferio, mentre Dauferio era il figlio del principe, come sappiamo dalla stessa carta. Dauferio, come Lando, si firma con il titolo di gastaldo nelle file dei sottoscrittori.[27] CDC TEXT Entrambi sono funzionari pubblici con il diritto di qualificarsi tali in ogni occasione, anche in quella della semplice testimonianza.

Gli esempi di Lando e Dauferio non devono però indurre a credere che il seguito del principe fosse costituito da soli parenti. I fideles, infatti, non sono da confondere con i consanguinei, seppure entrambi ricoprano ruoli istituzionali. Essi costituiscono un gruppo di persone legate al principe da amicizia e solidarietà, in virtù delle quali condividono con lui la quotidianità, dentro e fuori il palazzo. Tutti insieme rientrano nell’intento del principe di consolidare e mantenere il potere appoggiandosi ad uomini fidati, i compagni di lunga data, al fianco dei parenti più prossimi.

 


 

 

 

[1] PD. HL, l. IV, c. 43, “…quasi proprios filios…”.

[2] F. HIRSCH, Il ducato di Benevento, in F. HIRSCH-M. SCHIPA, La Longobardia meridionale (570-1077). Il ducato di Benevento. Il principato di Salerno, a cura di N. Acocella, Roma 1968, pp. 47-53.

[3] PD. HL, l. VI, c. 57, pp. 239-240.

[4] S. GASPARRI, I duchi longobardi, Roma 1977, pp. 97-98.

[5] HIRSCH, Il ducato, cit., pp. 77-86.

[6] Chron. Sal., c. 42, p. 42-45. Sicone esule da Spoleto, di origine nobile forse proveniente dal Friuli, arrivò alla corte di Arechi II con l’intento di raggiungere il porto di Otranto, l’ospite lo persuase a trattenersi nel suo ducato concedendogli il gastaldato di Acerenza.

Il figlio di Arechi muorì un anno prima di lui.

[7] DELOGU, Il principato di Salerno, cit., p. 241.

[8] Sono tesorieri Audelais, Godescalco, Grimoaldo IV e  Adelchi.

[9] S. GASPARRI, Il ducato e il principato di Benevento, in Storia del Mezzogiorno, Il Medioevo, vol. II, tomo I, diretta da G. Galasso e R. Romeo, Napoli 1988, pp. 105-106.

[10] J. M. MARTIN, Eléments préféodaux dans les principautés de Bénévent et de Capoue (fin du VIII siècle- début du XI siècle): modalités de privatisation du pouvoir, in Structures féodales et féodalisme dans l’occident méditeranéen (X-XI sec.), Bilan et prospectives de recherches, Roma 1980, p. 569. Fino alla metà del IX secolo, i principi infatti conferiscono loro la piena proprietà su terre appartenenti al fisco, come ricompensa del lavoro svolto nella pubblica amministrazione. L’importanza di questi donativi, secondo Martin, non risiede tanto nel fondo di cui si spoglia il principe, non a caso scelto tra i più periferici del patrimonio demaniale, quanto nel fatto che gli agenti di palazzo sono gli unici a ricevere doni dal duca.

[11] H. TAVIANI, Pouvoir et solidarietes dans le principauté de Salerne à la fin du X siecle, in Structures féodales et féodalisme dans l’occident mediterraneen (X-XIII siecls). Bilan et perspective de recherches, Roma 1980, p. 592.

[12] Chron. Sal., c. 101, pp. 102-103.

[13] H. TAVIANI, Le pouvoir princier à Salerne jusq’à l’arrive des Normands, in “Rassegna storica salernitana”, II/1 giugno 1985, pp. 12-14.

[14] CDC. vol. I, n. XXXV, anno 852; n. XXXVI, anno 853; n. XLVI, anno 856.

[15] CDC. vol. I, n. XLV, anno 852; n. XXXV, anno 852; n. XXXVI, anno 853.

[16] CDC. vol. I, n. LXIV, anno 868.

[17] CDC. vol. I, n. LII, anno 857; n. LVIII, anno 859.

[18] Questo termine non trova riscontro nelle carte cavesi se non nell’unico caso del 919 in cui Radoaldo si definisce “nobilem et fidelem vestrum”, riferito al principe Guaimario CDC. vol. I, n. CXXXVII, anno 919.

[19] Chron. Sal., c. 39, p. 40; c. 105, p. 105.

[20] CDC. vol. I n. LXV, anno 868.

[21] CDC. vol. I, n. LXVII, anno 869. Con il titolo di gastaldo si qualifica anche per una compravendita dell’890 a cui partecipa in veste privata, per la vendita di una sua proprietà in Agella acquistata anni prima da un certo Lupo. La presenza di alcuni uomini del seguito del principe, come Gaido o Lando, tra i sottoscrittori di questa cartula privata dimostra la coesione all’interno del gruppo per la reciproca assistenza negli affari privati.

[22] CDC. vol. I, n. XXXVI, anno 853; n. LXIV, anno 868; n. LXVIII, anno 869; n.  LXXVIII, anno 874.

[23] CDC. vol. I, n. XLV, anno 856; n. LXVII, anno 869; n. LXXVIII, anno 874; n. C, anno 884; n. CVI, anno 894. DELOGU, Il principato, cit., nota 67, p. 271.

[24] CDC. vol. I, n. XLV, anno 856; n. LXVII, anno 869.

[25] CDC. vol. I, n. LXIV, anno 868; n. LXXXVII, anno 882.

[26] CDC. vol. I, n. CXVII, anno 903.

[27] CDC. vol. I, n. CIII, anno 892.

Langobardia minor di Stefania Manni è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
tratta da: La società della Langobardia minor tra VIII e X secolo: l’esempio di Salerno Tesi di laurea A.A. 1998-1999. Prof. Stefano Gasparri, Laurea in Storia  – Università Ca’ Foscari di Venezia.