Le origini della Yakuza / Manuela Flore

 Le origini della Yakuza / Manuela Flore

1.1 L’origine del brigantaggio nel suo contesto storico.

La confusione politica cominciata nel Giappone del VII sec. portò a un graduale passaggio del potere decisionale dalle mani di un’aristocrazia di corte a quelle di una classe militare. Quest’ultima raggiunse una posizione tale da relegare la nobiltà ad un semplice ruolo decorativo la cui unica occupazione era quella di portare avanti le tradizioni, mantenendo vivo il rispetto e l’obbedienza.                                                L’ascesa del nuovo ceto fu evidente nel Sengoku jidai, periodo degli stati belligeranti, durante il quale si consolidò una struttura amministrativa dal carattere prettamente militare. All’abrogazione del servizio militare, seguì la formazione di un esercito sostitutivo composto da giovani rampolli delle famiglie e dei signori locali. Il nuovo esercito risultò presto inadeguato quindi, i nobili assunsero i samurai (dal verbo samurau: servire) ai quali fu assegnato il compito di vigilare e difendere i possedimenti del loro signore. Le concessioni legittimarono il potere dei capi delle legioni dando inizio alla scalata dei buke o bushi (casa o famiglia militare), gli unici ai quali il governo consentiva di portare la spada.[1]

I buke diedero vita a un severo codice di condotta, il bushidō, la via del guerriero, nel quale si sottolineavano i principi di coraggio, rettitudine, benevolenza, cortesia, sincerità, onore ed un radicato senso di giustizia e di dominio di sé.

Il bakufu (governo della tenda) di Kamakura diede grande importanza ai buke concedendo loro lo tsujigiri. Questo permetteva che un samurai, fermo all’angolo di una strada, aggredisse il primo uomo che gli si presentava davanti, al fine di provare la lama della sua nuova spada. Largamente diffuso nel periodo Tokugawa, lo tsujigiri veniva praticato dagli hatamoto, uomini della bandiera, dai rōnin, samurai senza padrone e dagli otokodake, giovani bushi criminali. Questi si muovevano negli shōen, possedimenti terrieri esentasse amministrati dai daimyō, nei quali gli hatamoto occupavano un grado inferiore e controllavano i quartieri.[2]

La parcellizzazione delle terre promossa nel periodo Edo (1603-1867), aveva fatto degli hatamoto vassalli minori sui quali lo shōgun, capo del bakufu, esercitava un controllo diretto. Sebbene non godessero degli stessi diritti del daimyō, gli hatamoto usufruivano del privilegio di udienza davanti allo shōgun; questo era per loro motivo di grande orgoglio. In realtà, le loro mansioni erano spesso servili e umilianti dato che, nei periodi di pace, costituivano la manovalanza necessaria per la ristrutturazione dei tetti dei castelli di Edo o per la costruzione di opere pubbliche.[3]

Nella scala gerarchica la figura dello hatamoto era seguita dal gokenin, un samurai di grado inferiore che diventava tale con una cerimonia ricca di significati. Il rito prevedeva il dono della spada da parte dello shōgun, gesto che sanciva definitivamente il legame indissolubile tra vassallo e signore e che gli consentiva il riconoscimento di uno status sociale. In seguito, al dono della spada si aggiunse il brindisi con il sake, sakazukishiki, aspetto ripreso dai riti d’iniziazione delle organizzazioni criminali.

Con il consolidarsi del potere politico dei Tokugawa, furono adottate nuove misure che diffusero un forte malessere soprattutto tra coloro i quali furono esclusi dall’ulteriore suddivisione del territorio, primi tra tutti gli hatamoto. Il senso di frustrazione raggiunse il culmine con le disposizioni della casa madre che con il katanagari ordinò, la caccia alle spade e alle armi. Le conseguenze di questa misura non si rilevarono solo sul piano sociale infatti, molto più gravi furono quelle psicologiche. L’arma veniva preparata secondo procedure tradizionali e dal profondo significato religioso ed era considerata un potente deterrente contro gli spiriti maligni. In essa era contenuta l’anima del valoroso guerriero e nella sua lama era riflesso l’onore di chi la portava quindi, togliere la spada a un samurai voleva dire privarlo della propria anima.[4]

La confisca delle armi segnò in modo violento e definitivo l’inizio della stratificazione sociale che avrebbe portato al congelamento della società.

Questa comprendeva: l’Imperatore, lo shōgun, i daimyō i samurai, i contadini e i chōnin a ognuno dei quali fu tassativamente vietato di cambiare occupazione. Gli editti emanati contenevano severe disposizioni che impedivano ai bushi di ritornare nei villaggi una volta finite le battaglie ed inoltre, morto il proprio signore, non potevano trovarne uno nuovo a cui votarsi.

Disapprovando qualsiasi forma di coalizione tra gli hatamoto di basso rango e i contadini, entrambi pressati dalle imposizioni fiscali sempre più alte, il bakufu si adoperò per evitare qualsiasi azione eversiva e per questo, con la riorganizzazione del 1635, agli hatamoto furono confiscate le terre in cambio delle quali conferirono stipendi fissi. Privati delle terre, incapaci di entrare nelle file degli ufficiali governativi, gli hatamoto si riversarono nei nuovi agglomerati urbani la cui espansione fu fortemente influenzata dal sankinkōtai. Agli sventurati si aggiunsero tutti i contadini che avevano perso le terre per difficoltà finanziarie e tutti i rōnin, samurai senza padrone, diventati tali in seguito alla stratificazione delle classi sociali.

Coloro i quali in città non riuscivano a trovare una sistemazione dignitosa, vagabondando in cerca di una nuova occupazione, vivevano ai margini della società svolgendo spesso dubbie occupazioni. Molti rōnin diventarono otokodake, giovani bushi fuori legge che si muovevano nel mondo criminale, e non furono pochi i disgraziati che riuniti in gruppi, vagando per il Giappone senza fissa dimora, si dedicavano al brigantaggio e al saccheggio.[5]

1.2 Prime forme di brigantaggio: hatamotoyakko.

L’impossibilità di esercitare le proprie capacità militari fu causa di un grave malessere diffuso soprattutto tra i giovani figli di hatamoto. Questi diedero sfogo alla loro frustrazione confluendo in una serie di gruppi compatti dediti al brigantaggio e identificati come hatamotoyakko.

Il termine yakko ci riporta a servitore tuttavia, in questo caso, assunse un’accezione contraria al significato originale. Hatamotoyakko diventò colui che, schieratosi dalla parte del più debole, si opponeva all’oppressore guardando con disprezzo l’opulenza dei daimyō considerata fonte di degenerazione. Lo hatamotoyakko era pronto a sacrificare la propria vita per i principi in cui credeva nel rispetto dell’umanità e della giustizia.

Riconoscibili per l’aspetto piuttosto singolare, essi erano anche conosciuti come kabuki mono.[6] Portavano lunghi baffi o lunghi ciuffi di capelli che cadevano sulle tempie; erano soliti indossare kimono dal colore blue marino; portavano appesa al fianco una lunga spada che, oscillando ad ogni passo, strisciava sul terreno. Solitamente la spada aveva il manico scuro oppure dello stesso colore del kimono mentre la fodera era laccata di scuro.

Gli hatamotoyakko percorrevano le strade maestre in gruppi di tre o quattro alla ricerca di potenziali prede da saccheggiare, innocenti da attaccare o di un qualsiasi pretesto per commettere lo tsujigiri. Portando avanti la tradizione familiare, da buoni samurai continuavano ad esercitare l’arte militare e a custodire quei valori di fedeltà incondizionata tipici della classe originaria.

Nonostante la violenza delle loro azioni, agli occhi dello spettatore essi apparivano figure grottesche e dai modi ridicoli. Incontrandoli d’estate lungo le vie non si poteva rimanere indifferenti di fronte ad un hatamotoyakko che, indossando contemporaneamente quattro o cinque kimono, mangiava zucche calde al contrario, d’inverno vestivano abiti leggeri e mangiavano zucche ghiacciate. Questo tipo di presentazione, li rendeva piuttosto innocui tuttavia, spesso il loro egocentrismo li portava ad aggirarsi furtivamente con fare arrogante e superiore.

Dopo aver mangiato in una locanda, essi erano soliti allontanarsi senza pagare il conto affermando apertamente:

 “We don’t have money today.”[7]

Se il povero malcapitato avesse protestato i malviventi, erano pronti a minacciarlo di morte con la spada. Nonostante ciò, pochi giorni dopo, gli stessi malviventi ritornavano sul luogo del delitto pronti ad estinguere il mancato pagamento con una somma largamente superiore al debito precedentemente contratto. Anche in questo caso, se l’oste si fosse rifiutato di accettare o avesse cercato di ricambiare in qualche modo, i giovani hatamotoyakko erano pronti a reagire con la forza. Per la gente comune non era facile relazionarsi con loro dato che usavano un gergo particolare e difficilmente comprensibile. Molti gruppi usavano nomi insoliti e spesso inverosimili come Taishō Jinji gumi, banda di tutti gli Dei, scomparsa in seguito agli interventi del governo.

Trovandosi davanti a questa forma embrionale di criminalità organizzata ciò che maggiormente stupisce è la grande forza di coesione interna. Uniti da vincoli indissolubili, gli hatamotoyakko giuravano di seguire le regole del gruppo che erano pronti a difendere a costo della loro sua stessa vita. Per rispettare l’impegno preso, rifacendosi all’antico codice d’onore dei loro padri, i giovani fuori legge erano pronti ad andare anche contro la stessa famiglie d’origine.

L’arroganza e i soprusi commessi non tardarono a generare il malcontento tra la gente comune che prontamente organizzò le proprie coalizioni di difesa.

 

1.3 I machiyakko.

In un primo memento i cittadini, incapaci di reagire, sopportarono le prepotenze e le angherie degli hatamotoyakko tuttavia, la rabbia infiammò gli animi degli oppressi che si unirono compatti nel tentativo di sconfiggere i prepotenti. La paura e il risentimento nei confronti degli hatamotoyakko si tradusse nella costituzione di solidi gruppi uniti per difendersi dagli attacchi dei giovani provocatori.

Sebbene in alcune occasioni ostentassero le stesse barbare abitudini dei loro rivali, i nuovi gruppi erano di estrazione sociale ben diversa. Impiegati, locandieri, artigiani e bottegai formarono forze leali e solidali adottando il nome di machiyakko, servitori della città. Caratteristica peculiare era il loro spirito cavalleresco: non turbavano mai i buoni cittadini che erano pronti a difendere senza tirarsi indietro, affrontando i rivali incuranti dell’elevata estrazione sociale di questi ultimi. Non era raro assistere a scene eroiche in cui un machiyakko combatteva contro un hatamotoyakko che aveva commesso tsujigiri.

Anch’essi caratterizzati da forti valori della tradizione, conquistarono presto la simpatia dei Tokugawa che usufruivano della loro maestria per imparare l’arte della spada. Grazie al loro appoggio i machiyakko estesero la sfera di influenza su territori sempre più vasti e accolsero nei loro gruppi gran parte degli emarginati, dei samurai sbandati e dei disoccupati che popolavano la città. Il capo gruppo dei machiyakko se ne prendeva cura preoccupandosi di trovare loro un tetto e un’occupazione e, nella maggior parte dei casi, gli affidava in lavori di manovalanza da eseguire nelle residenze dei ricchi samurai.[8] Poiché in genere si trattava di impieghi di breve durata, una volta portato a termine il lavoro, i disgraziati ritornavano sotto la cura e la responsabilità del capo machiyakko.

La preoccupazione e le attenzioni che lo oyabun, colui che occupa la posizione di genitore, riservava al povero impiegato diedero origine a una sorta di dipendenza da parte di quest’ultimo, pronto a seguire e a difendere il suo protettore a costo della sua stessa vita. Il forte legame tra le parti divenne stretto al punto da assumere le connotazioni di ie, famiglia, casa, con il tipico rapporto tra oyabun e kobun, vissuto come quello tra genitore e figlio.

L’aspetto familiare era altresì evidenziato dalla struttura gerarchica e dal rapporto di fratellanza esistente tra i componenti del gruppo inoltre, il legame tra i componenti era così solido da diventare una delle caratteristiche peculiari dei futuri gruppi criminali. La forza di coesione, profondamente radicata nella mentalità di ogni componente del gruppo, è senza dubbio la caratteristica che ha consentito lo sviluppo delle organizzazioni e il mantenimento dei valori tradizioni.

Per tutti i cittadini che nel quotidiano subivano inermi le angherie degli arroganti hatamotoyakko, la consapevolezza che i valorosi machiyakko erano pronti a intervenire in loro difesa era fonte di grande sollievo. Nell’immaginario collettivo il machiyakko diventò l’eroe per eccellenza, colui che difende il debole dai soprusi del più forte infatti, la sua fama è ancora oggi raccontata in numerose leggende nelle quali si esaltano le sue qualità morali e le sue gesta eroiche.

Nei racconti e nei drammi kabuki la figura più popolare e maggiormente rappresentata è quella di Banzuin Chōbei, famoso kyōkaku, cavaliere della città, da molti considerato leader incontrastato di tutti i machiyakko.[9] Su di lui non si hanno notizie certe tuttavia i drammi ispirati alla sua vita lo vedono originario di una famiglia rōnin delle regioni meridionali. Chōbei, lavorando come agente del lavoro, fornì la manodopera necessaria per la costruzione di opere pubbliche quindi, aperta una bisca, si dedicò a una delle tipiche attività che connoterà il mondo yakuza: il gioco d’azzardo. Banzuin si serviva della bisca clandestina per attirare gli operai e, istigandoli al gioco, tentava di recuperare parte dei salari che erano stati corrisposti. Questo tipo di trattamento, sopravvissuto anche dopo la scomparsa dei machiyakko, verrà ereditato dai bakuto, giocatori d’azzardo.

Nelle opere teatrali o letterarie Chōbei è descritto come l’eroico cavaliere che salva una giovane donna dagli stupratori o come l’uomo virtuoso che coronava il sogno d’amore di due giovani di diversa estrazione sociale. Davanti a chi lo ringraziava per il soccorso prestato l’eroe era solito rispondere:

“We have made it our principle to live with a chivalrous spirit. When put to the sword, we’ll lose our lives. That’s our fate. I just ask you to pray for the repose of my soul when my turn comes.”[10]
Come egli stesso aveva predetto, Chōbei perì per mano del suo eterno nemico Mizuno Jūrōzaemon, capo degli hatamotoyakko. Un dramma di Kawatake Mokunami recita:

Mizuno Jūrōzaemon, representative of Edo’s hatamotoyakko, and his followers, and have often encountered each other in amusement or gay quarters in Edo. Whenever they come face to face with each other, they begin to fight or quarrel. One day, Mizuno invites Chōbei through his messenger to come to his residence and have a drink togheter in token in reconciliation. Chōbei and his followers immediately determine that the invitation is a trap. Not listening to his followers who ask him not to go, Chōbei goes to Mizuno’s house alone.

Mizuno receives Chōbei respectfully at his home, and before long, a banquet begins. At the banquet of Mizuno’s followers spills sake from a large cup on Chōbei’s kimono under pretense of a slip of his hand. As planned, another of Mizuno’s followers takes Chōbei to a bathroom, suggesting he have a quick bath and change his kimono. When Chōbei becomes defenceless in the bathroom, four or five samurai, all Mizuno’s followers, attack him. But being proud of his physical strength, he defeats them with-out any difficulty. Holding a spear in his hand, Mizuno himself then appears in the bathroom. Looking into the eyes of Mizuno, Chōbei says calmly, “Certainly, I offer my life to you. I’m ready to throw away my life, otherwise I’d never have accepted your invitation and come here alone; I’d have listened to my followers who worried about my life. Whether one lives to be hundred or dies as a baby depends on his fate. You are a person of sufficient status to take my life because you are a noted […]. I offer my life to you with good grace. I knew I would be killed if I come here; but if it was rumored that Chōbei, who had built up a reputation as a machiyakko, held his life so dearly, it would be an everlasting disgrace upon my name. You shall have my life for nothing. I have iron nerves, so lance me to the heart without the slightest reluctance!”

Though tough, Mizuno Shrinks from these words and hesitates to spear him. His followers urge him. Finally, he makes up his mind and stabs Chōbei through the heart with his long spike. The curtain falls with Mizuno’s line: “ He was too great to be killed.”[11]

L’enfasi con cui il dramma kabuki descrive il valoroso Chōbei consente di capire perché gli yakuza moderni abbiano scelto lui e i machiyakko come loro antenati. Ancora oggi i criminali nipponici vedono negli eroici personaggi i custodi dei valori in cui essi credono. Le continue lotte e le dispute nelle quali entrambe le yakko si trovavano coinvolte portarono alla reciproca eliminazione delle fazioni. La scomparsa fu accelerata dalle misure restrittive adottate dal governo Tokugawa che dagli inizi del XVII secolo cercò di eliminare qualsiasi elemento sovversivo pericoloso per la pace e l’ordine tipico del loro governo.

 

1.4 Figure popolari idolatrate.

Tra i predecessori della yakuza moderna rientrano anche personaggi che si distinsero dalle masse per il loro coraggio, diventando beniamini della popolazione di Edo. Tra quelli più audaci e capaci di destreggiarsi i situazioni di estremo pericolo, emersero i goen, i machihikeshi e i tobi, tutti prevalentemente impegnati nella carpenteria e nello spegnimento degli incendi, noti per il loro coraggio e per l’indole facilmente irritabile.

I goen, erano vigili del fuoco o samurai di classe inferiore ai quali era affidato il compito di curare le residenze dei loro signori. I machihikeshi erano tra i più numerosi infatti, solo nei primi anni del diciottesimo secolo, esistevano circa quarantotto gruppi.[12] Ognuno di essi, strutturato gerarchicamente, era guidato da un capo al di sotto del quale i vari seguaci obbedivano senza riserva, vincolati da un rapporto indissolubile. Abitualmente impiegati alle dipendenze dei machiyakko, il loro intervento era richiesto solo in caso di incendio. Quando questo scoppiava, poiché ne andava del loro onore, più gruppi se lo contendevano seguendo il piano d’intervento del loro capo gruppo. A questo punto il motoimochi, colui che portava lo happi, stendardo o distintivo posseduto da ogni gang, arrampicatosi sul tetto dell’edificio, lo agitava per indicare ai compagni il punto in cui l’acqua doveva essere gettata.[13]

Dato che il gesto degli eroici personaggi si rifletteva sull’intero gruppo enfatizzandone valore e coraggio, il prescelto non doveva scendere dal tetto anche se il fuoco avesse dovuto consumare l’intero edificio. Con ogni probabilità, l’usanza della yakuza moderna di esibire distintivi, bandiere e spille, ha avuto origine proprio con gli happi dei motoimochi.[14]

1.5 Nascono le prime organizzazioni criminali: tekiya e bakuto.

La politica del bakufu alimentò un diffuso malessere tra la popolazione che, costretta all’immobilità, si trovava nell’impossibilità di cambiare o migliorare la propria situazione socioeconomica. In un mondo in cui avere uno ruolo sociale era di vitale importanza, esserne privi significava vivere ai margini della società. Il ribrezzo con cui il popolo trattava gli emarginati rese forte il senso di solidarietà tra gli esclusi che, entrando a far parte di un gruppo sociale ben delineato, rivendicavano lo status di cui spesso erano stati ingiustamente privati.

Gli emarginati che nei centri urbani non riuscirono a trovare buone prospettive, furono accolti da nuove coalizioni depositarie dei valori tradizionali degli yakko. Nonostante l’atteggiamento avverso dei Tokugawa, il mito e le leggende cavalleresche sugli hatamotoyakko e sui machiyakko continuarono a sopravvivere. A raccogliere tradizione e antichi valori furono soprattutto due nuove coalizioni: tekiya e bakuto, entrambe strutturate gerarchicamente e regolate da rapporti fondati su lealtà e fedeltà incondizionata. La scalata all’interno del gruppo era determinata dal comportamento che i seguaci mantenevano durante le battaglie ma non erano da meno la fedeltà verso lo oyabun e l’abilità fisica. Andare contro le rigide regole voleva dire incorrere in punizioni molto severe e esemplari come la morte, l’espulsione o lo yubitsume, ancora in uso nelle organizzazioni criminali odierne.

 

1.5.1 I tekiya

La parola tekiya è piuttosto recente infatti il termine con cui erano più noti all’inizio era yashi. Profondamente devoti alla divinità cinese Shinno, gli yashi si muovevano per il Kantō truffando la gente che li accusava di usare la devozione religiosa per ottenere buoni risultati negli affari. Fedeli alle tradizioni, ancora oggi nelle case degli yakuza si trovano altari dedicati alla divinità cinese di fronte al quale si svolge la cerimonia d’iniziazione del sakazuki inoltre, è possibile che lo stesso oyabun si autodefinisca Shinno o che il gruppo si designi come Shinno gyōsha, mercante protetto da Shinno.[15]

Con l’intensificarsi del commercio e con la diversificazione delle attività, gli eredi degli yashi furono identificati con la parola tekiya. Il campo semantico teki si rifà a oggetto, bersaglio, obbiettivo mentre ya contiene negozio, venditore, distributore, commerciante. E’ molto probabile che i due kanji siano stati capovolti per formare tekiya e considerate le attività illecite, assunse il significato di malvivente, truffatore, guardiano di banchetti da strada. Questa accezione derivava sostanzialmente dalla grande maestria con cui i tekiya riuscivano ad attirare i potenziali clienti che avevano l’abitudine di frodare vendendo loro merce scadente. Gli hattarabai, imbrogli, dei tekiya andavano dal ganenetabai, vendita di oggetti contraffatti, al monto, vendita di tessuti scadenti come stoffa di ottima qualità. Capitava che commerciassero merce usurata come le scarpe che, incollate e dipinte, alla luce della lanterna sembravano nuove, gesoya; altre volte commettevano kaboku vendendo bonsai, piccole piante, prive di radici.

Di fronte alle lamentele dei clienti, i fraudolenti tekiya, erano soliti difendersi sostenendo che non potevano essere considerati colpevoli di frode dato che, essendo stati in stato di ebbrezza, la vendita si era svolta con mente non lucida.[16]

La maggior parte degli ambulanti esercitava nei giorni di mercato seguendo il calendario delle festività religiose che, con il tempo, diventarono fiere permanenti inoltre, essi si riunivano abitualmente nei sakariba, luoghi animati paragonabili ai nostri spazi pubblici.[17]

Nel tentativo di aggirare i divieti imposti dai Tokugawa, contrari all’esercizio del commercio, gli ambulanti cominciarono a unirsi in gruppi compatti e ben organizzati e pur vivendo al di sotto delle classi, conquistarono un alto grado di considerazione.

Far parte dei tekiya significava sottostare al rispetto incondizionato del suo regolamento:

Non toccare la moglie di un altro seguaci;

non rivelare alla polizia i segreti dell’organizzazione;

resta rigorosamente fedele al legame con il tuo oyabun.[18]

Il centro dell’organizzazione fu fissato nella casa dello oyabun, dove venivano insegnati i segreti del mestiere agli aspiranti tekiya che ricambiavano svolgendo umili attività. L’adesione al gruppo era subordinata a un insieme di prove infatti venivano ammessi a pieno diritto solo coloro che, uniti ai seguaci già presenti in lista, ritornavano nella casa dello oyabun con buoni risultati di vendita.

Il potere dello oyabun si estendeva sul niwabari, zona di influenza o territorio, su cui erano disseminati i banchetti dei tekiya. Poiché per la buona riuscita degli affari era fondamentale sistemare il banchetto in un punto strategico, nella scelta, l’ambulante non poteva prescindere dal benestare dello oyabun della zona. Il suo potere decisionale era tale da determinare in quale punto sistemare il banchetto inoltre, l’usufrutto del suolo era subordinato al pagamento del mikajime, una sorta di tassa di beneficio, da destinare allo oyabun della zona. Qualsiasi rifiuto da parte dei venditori non solo avrebbe pregiudicato la buona riuscita degli affari, ma avrebbe anche suscitato l’ira dello oyabun che puniva con aggressioni, furto della merce o minacciando eventuali clienti. [19]

L’ascesa dei tekiya e l’espansione della loro influenza fu accompagnata da una serie di dispute che coinvolgevano tutte le fazioni interessate a estendere il controllo sui niwabari altrui. Nel tentativo di ridurre i continui disordini ed esercitare il controllo sulle forze economiche, tra il 1735 e il 1740, il governo attribuì agli oyabun il myōjitaito, una sorta di riconoscimento ufficiale che legittimava il loro operato. Insieme al nome di famiglia, questo consentiva loro di portare la spada, simbolo di status sociale che, nella scala gerarchica, collocava il favorito in un gradino al di sotto dei samurai.[20] Allo oyabun fu affidato il controllo sui mercati e sulla raccolta del mikajime dal quale tratteneva una percentuale come compenso per l’impegno svolto. Contemporaneamente essi svolgevano funzioni di vigilanza assicurando l’ordine nei niwabari dove continuavano indisturbati a gestire i loro traffici e a conquistare il rispetto della popolazione che erano pronti a soccorrere. Con il graduale abbandono dell’itineranza, i tekiya diversificavano gli affari concentrando il commercio in giorni diversi da quelli delle fiere tenute durante le festività.

Dietro l’apparente legalità si celavano attività criminali infatti nei niwabari aumentarono le protezione riservate in cambio di denaro e la detenzioni di armi usate durante gli scontri.

 

1.5.2 I bakuto.

A partire dal 1633, i Tokugawa esercitarono un controllo più serrato sui loro seguaci ai quali fu imposto il sankinkōtai, che imponeva ai daimyō di risiedere a Edo in periodi alternati. I tragitti percorsi dalle lunghe carovane diventarono le principali arterie stradali del Giappone lungo le quali crebbe il numero dei corrieri destinati a soddisfare i desideri dei daimyō. Lungo le strade maestre proliferarono le stazioni di posta nelle quali il viaggiatore trovava ristoro durante la notte. In quegli anni, percorrendo la Tokaidō, la Nakasendō e la Koshukaidō, era possibile imbattersi i circa cinquanta stazioni di posta in ognuna delle quali il viandante potevano allietare il suo soggiorno giocando con i bakuto, giocatori, una parte del denaro che portava con sé.

A questo punto è doveroso fare una breve panoramica sulle origini del gioco d’azzardo le cui tracce si trovano già nel epoca Nara (710–794), periodo in cui era molto comune il gioco dei dadi. Successivamente, nel periodo Kamakura (1185–1333), veniva spesso associato alle competizioni sportive o ai combattimenti tra cani. Anche se fortemente osteggiato dalle autorità Tokugawa, perché considerato fonte di irresponsabilità e crimine, il gioco d’azzardo suscitò sempre una certa attrazione. A gestirlo erano i bakuto che, in gruppi compatti, erano soliti riunirsi segretamente, ospitati nelle numerose stazioni di posta. La clandestinità delle bische era necessaria per sviare i divieti, nascondere le armi custodite illegalmente e per sfuggire ai serrati controlli. Per questo motivo, i bakuto erano pronti a escogitare ogni genere di trucchi. Tra questi, il più comune prevedeva che nei covi si costruissero doppi muri tra i quali i fuorilegge si nascondevano in caso di irruzione delle forze dell’ordine. I giocatori professionisti e non, provenienti da più parti del paese, si recavano nelle bische clandestine concentrate soprattutto nelle vicinanze dei templi o ai piedi delle montagne.[21]

Anche nei gruppi bakuto confluivano individui costretti a vivere ai margini della società e non era difficile che tra loro comparissero loschi individui accusati di azioni illegali. In quegli anni, capitava spesso che la famiglia d’origine ripudiasse il figlio balordo denunciandolo all’ufficio governativo della città che cancellava il nome dal registro di famiglia. Da questo momento in poi, considerate le sue tendenze criminali, nessuno era più disposto a garantire la sua integrità morale di conseguenza, per lui crescevano le difficoltà di trovare un occupazione.[22]

Nonostante le inevitabili lotte per il controllo del niwabari, tra i bakuto esisteva un alto grado di reciproca collaborazione o di mutuo soccorso. Un classico esempio era rappresentato dall’accoglienza riservata al giocatore che, fuggito dal proprio villaggio perché ricercato, viaggiava per il paese trovando ospitalità nelle abitazioni degli oyabun dei bakuto. Per uno yakuza l’itineranza si traduceva in una sorta di auto istruzione infatti, viaggiare di luogo e in largo era considerato il modo migliore per accrescere il coraggio, la capacità di destreggiarsi nel mondo e per acquistare una maggiore credibilità.

Nell’esperienza di vita il vagabondaggio era favorito dai rituali jingi che imponevano il rispetto di rigide norme comportamentali in qualunque località il bakuto si fosse trovato. Una volta giunto davanti alla casa dello oyabun, egli si presentava “alla maniera jingi” seguendo un rituale fatto di espressioni uniche e congeniali alla professione esercitata.[23] Questo consentiva all’ospite di riconoscere il bakuto che, in ordine pronunciava: nome, cognome, luogo di nascita, relativa localizzazione geografica seguiti dal luogo di provenienza e dal nome dell’oyabun presso cui aveva prestato servizio. La formula di presentazione cominciava con:

“[…] I’m a humble man, and as we’ve now made acquaintance with each other, I would like you to support me from today onwards.” [24]

Quindi il viaggiatore presentava in dono l’asciugamano tenuto sul petto che l’usciere restituiva dicendo

“Your courtesy is enough appreciation.”[25]

L’etichetta richiedeva che l’asciugamano gli venisse restituito insieme a una somma di denaro da utilizzare per le spese di viaggio.

Durante la permanenza il viandante si sdebitava occupandosi delle faccende domestiche oppure attingeva l’acqua per riempire la vasca da bagno dello oyabun. La protezione concessa infondeva nel giovane un forte senso di gratitudine e devozione nei confronti dell’ospite; da parte sua, il padrone di casa se ne prendeva cura con la dovuta cortesia.

Tuttavia, la ragione di tanta gentilezza deve essere ricercata anche nella necessità che aveva il padrone di casa di immunizzarsi contro un’eventuale vendetta dello oyabun del kobun che aveva ospitato.[26]

  

1.6 Yakuza: etimologia della parola.

Quando si parla delle organizzazioni criminali nipponiche può capitare di imbattersi in più parole usate per la loro identificazione. Quelle comunemente note al pubblico occidentale sono bōryōkudan e yakuza. La prima, più recente, intende indicare i componenti di gruppi o di organizzazioni che usano la violenza e la forza mentre la seconda espressione, a noi più familiare, è yakuza. Secondo la tesi più accreditata le cui origini etimologiche della parole yakuza sono da ricercare nelle bische clandestine dei bakuto.

Il nome deriva da un gioco di carte chiamato hanafuda, carte di fiori, altrimenti detto hanakaruda, in cui karuda deriva dal portoghese carta e per avere un’idea del gioco possiamo paragonarlo alla versione più occidentale del black jack. Praticato soprattutto da giocatori professionisti, lo hanafuda era segretamente diffuso nelle bische del periodo Edo. Con un mazzo di quarantotto carte divise in semi rappresentanti i dodici mesi dell’anno, ad ogni partecipante venivano distribuite tre carte. Poiché ventuno era la combinazione vincente, chi totalizzava un punteggio dato da 8, 9 e 3 , ya, ku, sa, nell’ultima mano era destinato a perdere. Comunemente usata dai di giocatori d’azzardo l’espressione fu trasformata in yakuza e assunse la connotazione di una cosa priva di valore, fino a indicare un qualche cosa di indegno.[27]

La parola rimase circoscritta nell’ambiente clandestino e per anni fu usata in riferimento a tutti i giocatori d’azzardo diventando sinonimo di fuori gioco oppure di uomini inutili alla società e, ancora di individui nati per perdere. Sebbene ancora oggi non siano pochi i puristi tendenti a riconoscere nei biscazzieri tradizionali i soli depositari della vera cultura e tradizione yakuza, la parola ha finito con l’essere comunemente usata per identificare bakuto e tekiya.

 


[1] Edwin O. REISHAUER, Storia del Giappone Passato e Presente, Milano, Rizzoli Editore, 1974, pp. 60-72.

[2] George SANSOM, A History of Japan 1615-1967, Stanford UP, Stanford, California, 1966, pp. 277–278.

[3]ARTICOLO Non firmato, The Origin of the Yakuza, “The East”, p. 46-51.

[4]Chatarina BLOMBERG, The Hart of the Warrior, Curtzon Press Ltd, 1994, pp. 48-67.

[5] Ibid. pp. 100-103.
[6] George SANSOM, op., cit., p.
[7] ARTICOLO non firmato, op. cit., pp. 46-51.

[8] Keiichi, MIZUSHIMA, George DE VOS, “Organization and Social Function of Japanese Gangs: Historical Development and Modern Parallels”, in R.P. Dore, (a cura di) Aspect of Social Change in Modern Japan, Princeton: Princeton University Press, 1967, Cap. XI, pp. 286-326.

[9] ARTICOLO non firmato, op. cit., pp. 46-51.

[10] Ibid.
[11] Ibid.

[12] George DE VOS, Keiichi MIZUSHIMA, op. cit., pp. 286-326.

[13] Kenji INO, Yakuza to Nihonjin, Tōkyō, Gendaishokan, 1974, pp. 35-49.

[14] Walter AMES, Police and Community in Japan, Berkley: California UP, 1981, pp. 109-110.

[15] George DE VOS, Keiichi MIZUSHIMA, op.cit, p. 295.

[16] Ibid. p. 284.
[17] Philippe PONS, Yakuza: la Mafia du Japon, ‘‘L’Historie’’, Parigi, No. 51, Dec.1982, pp. 48-61.

[18] Kyoji ASAKURA, Atsushi MIZOGUCHI, Kio YAMANŌCHYU, Tōkyō, Yakuza to Iu Ikikata, Takarajimasha, 2000, pp. 156-160.

[19] Takagi Masayuki, Pride and Prosperity Among the Yakuza, J.Q., Vol XXXII, N. 3, 1985, pp. 321.

[20] George DE VOS, Keiichi MIZUSHIMA, op. cit., p. 284.

[21] ARTICOLO non firmato, op. cit. pp. 45-51.

[22] DE VOS, MIZUSHIMA, Socialization for Achievement: Essays on the Cultural Psychology of the Japanese, Berkley, University of California Press, pp. 276–277.

[23] Ruth BENEDICT, Il Crisantemo e la Spada, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1991, p. 133. 

[24] ARTICOLO non firmato, cit., pp. 45-51.
[25] Ibid.
[26] Ibid.
[27] Ibid.