Le operazioni economiche della Yakuza / Manuela Flore

Yakuza: tra politica e affari / Manuela Flore, relatore Francesco Gatti [2001] Università degli Studi di Venezia, Ca’ Foscari: Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, A.A. 2000/2001

3.1 Yakuza e la pubblica sicurezza: una relazione simbiotica.

Quando si pensa al Giappone si è soliti immaginare un paese in cui il popolo si muove ordinato nel rispetto della legalità. Questo quadro idilliaco è rafforzato dalla presenza di un servizio d’ordine efficiente e rinomato, capace di far rispettare la legge senza per questo intervenire con l’uso della forza. Questa immagine della società nipponica viene però ridimensionata quando si tiene presente che l’onestà dei suoi cittadini, più che a questioni prettamente morali, è legata al fatto che vivere nell’illegalità comporta grande imbarazzo sia per il singolo che per la sua famiglia.[1]

Quando nel 1991, la Japan Civil Liberties Union denunciò la polizia per abuso di autorità, sollevò una serie di dubbi sulla presenza o meno di elementi corrotti al suo interno. In seguito la Japan Federation of Bar Association avvalorò l’accusa, sostenendo che il rilascio dei sospetti era spesso dovuto all’inettitudine degli investigatori che non riuscivano ad estorcere le confessioni con appropriati metodi coercitivi.[2] La loro incompetenza è accentuata dal fatto che essi non sono riusciti a estirpare le radici della yakuza o a ridurre i loro traffici illeciti. Al contrario, la yakuza sembra essere un fenomeno che cresce a dispetto delle misure legali e degli interventi in forze.

Un sondaggio realizzato nel 1985 dalla National Police Agency rivela che il 7,8% degli intervistati accettano i bōryōkudan, sostenendo che la loro presenza sia necessaria per la società stessa. Dalla stessa indagine risulta che il 4,9% degli intervistati ritiene che, in caso di difficoltà, essi possono contare sull’intervento della yakuza. Questa sorta di legittimazione da parte della società, può essere spiegata dal fatto che il crimine organizzato nipponico funge da vero e proprio deterrente della microcriminalità.

Detenendo un indiscusso ruolo quale supervisore del crimine, la yakuza è pronta a intervenire per reprimere ogni minima presenza di microcriminalità, punendo i colpevoli con pene esemplari al fine di scoraggiare chiunque voglia fare altrettanto. Le azioni punitive, oltre a difendere il giro d’affari da loro gestito, mira a tutelare l’etica che da sempre li ha caratterizzati. Fedele al ninkyōdō, un bōryōkudan rifiuta la microcriminalità considerata disonorevole e non aggredisce mai un katagi. Di conseguenza i cittadini sono liberi di camminare per la città certi di non correre alcun pericolo. Mantenendo uno stretto controllo sui propri affari, la yakuza assicura l’ordine nei niwabari realizzando una sorta di mutua collaborazione con le forze dell’ordine che non hanno certo interesse a soffocare il fenomeno.

Un occidentale non può fare a meno di sorprendersi quando, girando per un quartiere cittadino, gli capita di trovarsi davanti a una stazione di polizia e subito dopo imbattersi nel quartiere generale di un clan yakuza che affigge liberamente il suo stemma fuori dalla porta. La convivenza pacifica è favorita dalle affinità ideologiche: entrambe vantano un forte spirito nazionalista e conservatore; ambedue sono costruite sulla base di una struttura gerarchica in cui i componenti si muovono in uno ambiente saturo degli antichi ideali di fedeltà e pietà filiale.[3]

Le analogie ideologiche e strutturali non bastano comunque a giustificare un rapporto così stretto. La National Police Agency ha rivelato che, in diversi casi, la polizia ottiene parte dei proventi ricavati dalle attività illecite sottratte ai dovuti controlli.

Negli anni ottanta un grosso scandalo coinvolse la polizia di Ōsaka che fu accusata di aver abusato della sua autorità, favorendo l’importazione di giovani donne straniere destinate a finanziare il mercato della prostituzione, concentrato nei locali notturni gestiti dalla yakuza. Negli stessi anni, ufficiali di spicco furono arrestati perché accusati di aver accettato pagamenti in denaro in cambio del quale, essi avevano escluso il gioco d’azzardo da qualsiasi ispezione.[4]

Sebbene il governo abbia spesso cercato di arginare il fenomeno della corruzione, tenendo conto del patrimonio culturale autoctono, è difficile accusare di corruzione un giapponese. In Giappone, paese in cui la cultura del dono è saldamente radicata, è problematico tracciare una linea di demarcazione che segni il confine tra i due concetti. Nel tentativo di arginare il fenomeno, il governo ha provato a stabilire il suo valore massimo e nel caso in cui questo venga superato, verrà considerato corruzione.[5]

In passato la polizia ha cercato di mettere in guardia la cittadinanza informandola sulle attività illegali gestite dal crimine organizzato, invitandola a denunciare qualsiasi forma di violenza o di intimidazione. I commissariati hanno incoraggiato i cittadini a escludere le famiglie degli yakuza impedendo ai figli di giocare con i loro e a imbarazzando le mogli, togliendo loro il saluto. In altri casi, la polizia ha chiesto ai clan una lunga documentazione prima di concedere loro il permesso di organizzare solenni funerali o suntuose cerimonie d’iniziazione.

Le forze dell’ordine hanno anche compiuto una serie di irruzioni nelle sedi della yakuza tuttavia, queste non sono sempre andate a buon fine. In genere gli ufficiali corrotti informano il clan dando loro la possibilità di fuggire.[6] Paradossalmente, poiché la yakuza rispetta i compiti svolti dalla polizia, lasciano sempre qualche prova che attesti la loro presenza prima della fuga.

 

3.2 Una forza in espansione.

Sebbene le istituzioni pubbliche abbiano più volte cercato di intervenire per arginare il potere della yakuza, questa è diventata una delle organizzazioni criminali più grandi del mondo con un giro d’affari di proporzioni immense. E’ interessante notare come nel corso degli anni il numero delle ikka (casa, famiglia) sia diminuito mentre, al contrario, sono aumentati i componenti dei clan più importanti. E’ stato appurato che dal 1979 al 1988 il numero degli yakuza erano diminuiti passando da 106.754 a 86.552 mentre, il totale dei componenti dei tre clan principali, la Yamaguchigumi a Kobe, la Inagawakai e la Sumiyoshikai a Tōkyō, erano aumentati da 29.225 a 34.492.

Nel 1996 la Polizia ha accertato l’esistenza di 46.000 yakuza attivi in 3.120 gruppi coadiuvati da 33.900 collaboratori. Questi ultimi, anche se non compaiono nelle liste dei membri effettivi, prestano comunque il loro supporto. Per avere un’idea della potenza umana di uno dei sindacati più importanti del Giappone, basta pensare che la Yamaguchigumi vantava 33.600 membri effettivi mentre nel 1979 ne aveva 20.826, ai quali si aggiungevano i 1.290 affiliati operanti in 43 delle 47 prefetture del Giappone.[7]

E’ interessante notare come con l’emanazione della legge anti bōryōkudan del 1992 le ikka, siano diminuite in modo considerevole. Infatti, rispetto al 1991, il numero degli yakuza si era ridotto di 11.000 unità mentre, il numero complessivo dei grandi clan passò dal 61,6% al 69,6%.[8]

La polizia ritiene che, al fine di proteggere le organizzazioni da eventuali inchieste, alcuni suoi membri abbiano abbandonato spontaneamente il gruppo per gestire attività legalmente riconosciute, dietro le quali celavano gli sporchi traffici delle ikka da cui si erano apparentemente allontanati. La National Police Agency fa sapere che nel 1989 la yakuza gestiva un giro d’affari stimato in 1.302 trilioni di ¥, circa 9.5 bilioni di dollari americani. La maggior parte del denaro è il risultato del miracolo economico degli anni ottanta che offrì l’opportunità di estendere il controllo su nuovi settori finanziari.

La dura campagna di arresti promossa nel 1993 portò all’incarcerazione di 1.440 yakuza, di questi il 43% si dichiarava disoccupato, in realtà, il 6.1% di loro percepiva un reddito mensile di circa 210.00¥ mentre il 5.9% aveva un’entrata di 1 milione di ¥ al mese.

 

3.3 La grande ascesa economica.

Sin dalla loro comparsa tekiya e bakuto sono stati coinvolti nelle forme tradizionali del crimine organizzato mantenendo uno stretto controllo sull’estorsione di denaro, sulla prostituzione, il gioco d’azzardo e l’usura. Dimostrando una grande capacità di stare sempre al passo coi tempi, a partire dagli anni ’40, la yakuza estese il controllo sull’edilizia, la falsificazione di denaro e dei valori bollati, l’industria del sesso, il contrabbando di immigrati e la frode.

Negli anni settanta i bōryōkudan si specializzarono nell’importazione di armi da fuoco e di sostanze stupefacenti, investendo ingenti capitali nelle Hawai, in California, in America latina e in Canada.

E’ molto probabile che la sua internazionalizzazione sia legata alla necessità di fuggire alle rigide detrazioni fiscali a cui furono sottoposte le compagnie da loro controllate. In sostanza, la yakuza è riuscita a consolidare la sua posizione dominando incontrastata l’universo del crimine organizzato nipponico e conquistando una posizione ragguardevole nel mercato internazionale.

La sua ascesa economica fu indubbiamente agevolata dal boom economico del Giappone a partire dagli anni ottanta. Con il passare del tempo i sindacati del crimine organizzato riuscirono a investire ingenti capitali in attività legali. Alla gestione di rispettabili country club con campi da golf annessi; di grandi magazzini, di servizi di sicurezza, di banche, di compagnie di costruzione e di demolizione e dell’industria cinematografica, si aggiunge quella di agenzie turistiche e di ogni attività legata al settore del divertimento e a gestire importanti complessi ospedalieri.

3.4 I sarakin.

La politica del governo e le consuetudini dei cittadini hanno fatto del Giappone uno dei paesi con il più alto tasso di risparmio. Infatti, negli anni precedenti il 1980 questo corrispondeva a circa il 20% del reddito individuale complessivo. Tuttavia, neanche il Giappone è rimasto insensibile al crescente consumismo tanto che, il mercato dei prestiti passò dai 103 miliardi di dollari del 1973 ai 958 miliardi dei primi anni ottanta.

Trattandosi di un fenomeno prevalentemente nuovo, i primi a conquistare un ruolo di primo piano furono i sarakin, finanziatori dei salariati, uomini riuniti in vere e proprie agenzie di prestito che concedono crediti ad alti tassi di interesse e a breve termine di restituzione. Si calcola che nei primi anni del 1980 i sarakin erano presenti sul territorio nazionale con 42.000 agenzie che conquistarono il mercato del credito, anche grazie alla politica degli istituti finanziari, legalmente riconosciuti, riluttanti a concedere crediti ai privati.[9]

Nel tentativo di frenare il monopolio dei sarakin e conquistare una fetta del mercato, nel 1983 il governo approvò un programma legislativo mirato ad agevolare il settore limitando i tassi d’interesse, prima fissati al 110% annuo quindi al 73% e destinato a scendere al 40% nel 1987. Queste misure agevolarono la presenza degli istituti di credito stranieri tuttavia, benché questi calcolassero tassi compresi tra il 18% e il 28%, i giapponesi continuavano a rivolgersi ai sarakin.

Spesso, malgrado le vantaggiose condizioni offerte dagli istituti di credito, capita che i clienti non riescono a liquidare i debiti contratti. In questo caso, al fine di riequilibrare il bilancio, le banche cedono i crediti insoluti ai sarakin che provvedono a riscuoterli. La presenza della yakuza, attratta da un settore così redditizio, è stata quindi agevolata dalle stesse banche che, nel timore di violente rappresaglie, hanno lasciato che il crimine organizzato diventasse il principale addetto del settore.[10]

Sebbene le autorità abbiano promosso una dura campagna contro i sarakin, i giapponesi continuano a rivolgersi a loro sia per consuetudine, sia perché questi concedono i prestiti con maggiore facilità. In realtà, l’apparente disponibilità nasconde le continue e assillanti intimidazioni dei sarakin che intendono così ottenere la restituzione del credito sottoscritto.

Contrariamente a quanto si pensi non sono le minacce a preoccupare gli insolventi ma ciò che li angustia sono le subdole tattiche volte a danneggiare l’orgogliodei creditori. Le continue visite dei sarakin creano un forte imbarazzo nei giapponesi che, non sopportandone il peso, sono costretti a lasciare il lavoro e le loro famiglie o addirittura a suicidarsi. Questi dati evidenziano il motivo per cui i sarakin sono considerati tra i primi responsabili dell’alta percentuale di suicidi e dei johatsu, gli evaporati o scomparsi. Da un’indagine realizzata nel 1982, è emerso che sul totale dei suicidi verificatisi in quell’anno, 2400 erano ricollegabili ai sarakin mentre, 7300 soggetti abbandonarono le famiglie. Tenendo conto dei gravi danni apportati al settore finanziario, queste cifre dimostrano quanto i sarakin costituiscano una grave piaga sociale.[11]

3.5 Jiageya: i procacciatori di aree edificabili.

Sin dalla sua origine, la yakuza ha mantenuto un posto di rilievo nel settore edilizio operando con imprese di grande fama che, approfittando delle influenti conoscenze tra gli amministratori pubblici, sono riuscite ad aggiudicarsi appalti miliardari. Tenendo conto dello sviluppo urbano, tipico di ogni società industrializzata, e della conformazione fisica del territorio, con il passare del tempo si è ridotta in modo considerevole la disponibilità di aree edificabili.

Attratte dalle enormi somme ottenute dalla compravendita dei terreni, le grandi compagnie e le banche si contendono gli spazi ancora liberi, generalmente concentrati nelle zone periferiche delle grandi città. La loro attenzione si concentra soprattutto su quei lotti adiacenti a vaste aree di sviluppo come, per esempio, quelle in cui esiste un progetto per la realizzazione di un grande campo da golf; altre volte l’interesse cade su locali situati all’ombra di grosse costruzioni al centro della città. Il loro scopo è di impadronirsi di quelle aree e quindi, speculando sul prezzo di vendita, cedendoli al maggior offerente che provvederà a realizzare progetti miliardari.

Poiché non sempre i proprietari sono disposti a cedere le proprietà, gli interessati si rivolgono ai jiageya, una sorta di procacciatori di terre edificabili al servizio della yakuza. Operando dietro altissimi compensi, i jiageya hanno il compito di convincere con l’intimidazione e la violenza i soggetti riluttanti che, non di rado, si vedono distruggere lo stabile davanti agli occhi senza avere alcuna possibilità d’intervenire. Il giro d’affari legato alla speculazione edilizia ha fatto di loro delle figure indispensabili per le banche che non possono farne a meno e infatti essi sono soliti dichiarare:

 “Abbiamo bisogno della loro professionalità perché la legge tutela in modo eccessivo il piccolo proprietario terriero. Le loro azioni e le pressioni psicologiche sono perfettamente legali e legittime.”[12]

Questa affermazione evidenzia come, la collaborazione con importanti istituti di credito e affermate compagnie, hanno fatto dei jiageya uno dei settori più redditizi della yakuza.

 

3.6 Sōkaiya, gli yakuza dai colletti bianchi.

Integrandosi perfettamente con lo sviluppo economico del paese, la yakuza ha saputo dare vita a nuove figure che le hanno permesso di esercitare una forte influenza nei consigli di amministrazione delle grandi società per azioni. In questo senso la loro presenza è stata favorita da una nuovo gruppo, i sōkaiya, azionisti professionisti che, rilevate le quote minime di partecipazione, intervengono alle assemblee deliberanti influenzando le decisioni con l’uso dell’intimidazione e della violenza.

Già attivi nel 1890, anno in cui fu emanato il Primo Codice Commerciale del Giappone, i primi sōkaiya più famosi furono Chiharu Inokichi e Takebe Kosaku che, con l’estorsione di denaro, riuscivano a infiltrarsi nelle assemblee delle più note compagnie disturbandone le discussioni.[13] Negli anni dell’occupazione, gli americani rilevarono l’esistenza di anomale amministrazioni aziendali nelle quali esistevano due tipi di azionisti: quelli che decidevano e quelli che sottostavano ai loro provvedimenti. Alla richiesta di spiegazioni, i giapponesi rispondevano che,in realtà,gli azionisti non hanno nulla da dire.”[14]

I programmi di riforma attuati dallo SCAP tendevano ad eliminare queste disparità. Tuttavia, essi non ottennero i risultati sperati infatti, tra il 1960 e il 1970 in Giappone erano attivi circa 600 sōkaiya operanti in aziende di importanza nazionale. Uno degli esempi più rilevanti è legato a un grosso scandalo del 1970 quando, grazie ai sōkaiya, uno dei colossi della petrolchimica era riuscito a nascondere i danni causati all’ambiente e alla popolazione di Minamata.[15]

Successivamente furono rilevati legami tra sōkaiya e gruppi di giovani ultra nazionalisti, entrambi chiamati a soffocare con la forza le contestazioni della sinistra che si opponeva contro il sostegno delle industrie nipponiche alla guerra del Vietnam.[16]

Nel 1974 la National Police Agency afferma l’esistenza di una stretta connessione tra i sōkaiya e la yakuza, la tesi fu avvalorata dalla confisca di 900 milioni di yen provenienti dalle estorsioni. Successivamente, un censimento delle forze dell’ordine rivelò che le compagnie di sōkaiya erano aumentate di numero passando dai 5227 del 1975, ai 6240 nel 1976 raggiungendo i 6504 nel 1977.

Ma, come operano i sokaiya? Sostanzialmente, dopo aver acquistato le quote azionarie necessarie per partecipare alle assemblee, scavano nella vita privata degli azionisti e usano le informazioni per ricattarli. Questi ultimi pagano somme altissime per impedire che vengano rese pubbliche evasioni fiscali, amanti nascoste o il mancato rispetto delle norme di sicurezza. Alcuni gruppi di sōkaiya organizzano grandi feste alle quali partecipano importanti uomini d’affari che si presentano con un adeguato dono in denaro riposto in apposite buste. L’aspetto più curioso riguardo a questa forma di ricatto è che le somme pagate possono essere facilmente dedotte dalle imposte, registrandole sotto la voce di donazioni o spese di pubblicità.

Al fine di impedire che le contestazioni creino disordini spezzando l’armonia dell’assemblea, diverse compagnie assumono gruppi di sōkaiya che intervengono prontamente per zittire gli oppositori. Le assunzioni sono dettate anche dalla necessità di ridurre al minimo i tempi di riunione. In realtà, gli azionisti si incontrano privatamente per decidere le strategie che verranno formalmente approvate durante le assemblee. Solitamente tutto il programma aziendale viene discusso in un ora; da ciò risulta evidente il clamore suscitato nel 1984 della Sony che, a causa delle continue interruzioni dei sōkaiya, rimase in riunione per 13 ore e mezza.[17] Un’altro meccanismo di autodifesa si realizza nella stretta collaborazione delle aziende che, di comune accordo, decidono di riunirsi lo stesso giorno impedendo ai sōkaiya di essere presenti contemporaneamente in più riunioni.

Le preoccupazioni furono alimentate dalla violenza dei loro interventi. Al fine di mettere un definitivo freno al fenomeno, nel 1982 fu approvata la riforma del codice commerciale con il quale si vietava alle aziende di assumere o pagare gli yakuza. Il provvedimento non diede i risultati sperati. I gruppi di sōkaiya ancora oggi arginano le misure di sicurezza registrandosi come organizzazioni di estrema destra alle quali, di diritto, spettano i contributi statali. Nonostante le azioni repressive, i sōkaiya continuano ad essere attivi e in costante aumento. Dai 650 del 1977 sono cresciuti fino a raggiungere i 1200 nel 1979 e i 6300 nel 1989, cifra che evidenzia il fallimento dei provvedimenti adottati. [18]

3.7 Yoshio Kodama e il caso Lockheed.

Il 4 febbraio del 1976 la stampa nazionale riportava lunghi articoli in cui il presidente della Lockheed Aircraft Corporation, Carl Kitchian, rilasciava una dettagliata confessione riguardo a ingenti somme di denaro, segretamente trasferite nei conti di noti personaggi della politica e della finanza giapponese. Una minuziosa documentazione rivelava che, nonostante le passate misure restrittive, era ancora forte l’alleanza tra la destra e la yakuza.

Le indagini coinvolgevano ancora una volta Kodama Yoshio in cui la stampa identificava l’intermediario tra politica e malavita. Inoltre, poiché nello scandalo era coinvolto anche il Primo Ministro Tanaka Kakuei, erano ormai svelati i numerosi imbrogli elettorali.[19]

Il racconto di Kitchian cominciava dal 1957, anno in cui la società americana decise di espandere il suo giro d’affari in Giappone. Preoccupato dall’andamento negativo delle vendite, l’amministratore delegato in Giappone, John Kenneth Hull, si rivolse a Taro Fukuda affinché gli organizzasse un incontro con un personaggio politicamente influente. Fukuda era un interprete che negli anni della politica antimilitarista era stato rinchiuso nel carcere di Sugamo, dove aveva stretto una forte amicizia con Kodama Yoshio che lo nominò suo biografo ufficiale.

Secondo Fukuda, il personaggio ideale era Kodama che, in quegli anni, aveva consolidato i rapporti nel mondo politico finanziario e conquistato il ruolo di indiscusso mediatore tra yakuza e alte istituzioni. Servendosi delle sue amicizie politiche, egli riuscì a influenzare le autorità competenti che decisero improvvisamente di acquistare gli aerei dalla Lockheed. Tra coloro che accolsero prontamente la richiesta di Kodama comparivano nomi eccellenti come quello del Primo Ministro Nobusuke Kishi la cui elezione era strettamente connessa al sostegno di Kodama e dei suoi gurentai. Kodama aveva dato vita a una grande macchina economica e per agevolarne il funzionamento si rese necessario ottenere la collaborazione di una persona autorevole che potesse influenzare il governo in modo più diretto. La scelta cadde su Tanaka Kakuei, allora Ministro dell’Industria e del Commercio Estero, candidato alle prossime elezioni come Primo Ministro. Sebbene lo stimasse per le sue abilità politiche, Kodama non lo conosceva personalmente quindi occorreva trovare un intermediario. A questo punto entrò in scena Osano Kenji, un personaggio abile e astuto che aveva creato un vero e proprio impero finanziario gestendo le attività più disparate. Le sue conoscenze in campo politico erano strettamente connesse alle numerose donazioni a sostegno delle campagne elettorali dei candidati del PDL. Osano era un intermediario perfetto giacché conosceva sia Tanaka che Kodama. Con il primo era entrato in affari nel 1965 mentre, con il secondo era legato dalle numerose donazioni destinate a finanziare l’attività dei gurentai.

La decisione di aumentare il traffico aereo nazionale aveva portato il governo a stringere un accordo con la MacDouglas dalla quale aveva deciso di acquistare aerei DC10. A questo punto Kodama convinse Osano, già maggior azionista della Japan Air Lines, a rilevare le quote azionarie della All Nippon Airwais quindi, fece intervenire i suoi sōkaiya. Le loro rivelazioni imbarazzarono il presidente della compagnia che, dimessosi il giorno seguente, fu prontamente sostituito con un protetto di Kodama. Quest’ultimo usò ancora le sue vecchie amicizie e chiese l’intervento di Sasakawa, allora addetto alla prevenzione dell’inquinamento sonoro, al quale venne offerta una grossa somma in cambio del silenzio sugli aerei della Lockheed. Eletto Primo Ministro nel 1972, grazie al sostegno di Kodama e della yakuza, Tanaka ordinò l’acquisto dei TriStar L1011 e subito dopo la società americana trasferì in Giappone le tangenti per il potente kuromaku e per i suoi collaboratori.

Considerati gli ottimi risultati ottenuti grazie all’intervento di Kodama, la Lockheed continuò a usufruire dei sui favori trasferendo sui suoi conti grandi quantitativi di denaro. Si calcola che nel 1969, dopo aver concluso il contratto per la vendita dei TriStar L1011, la società americana versava dai 120.000 ai 180.000 dollari aumentando così il già consistente patrimonio del kuromaku che usava parte delle entrate per finanziare i gruppi yakuza.[20]

Quando le autorità americane chiesero spiegazioni sui continui trasferimenti di denaro, la relazione illecita tra la Lockheed e le autorità nipponiche fu smascherata, sollevando un clamore senza precedenti. La stampa americana sosteneva che, il progetto economico della Lockheed, celava in realtà un piano ideato dalla CIA che voleva ripristinare i rapporti tra la destra e i gurentai ultranazionalisti in vista del pericolo comunista. La stampa giapponese cercò di difendere il paese sostenendo che, in realtà, l’acquisto degli aerei era stato sollecitato dallo stesso presidente Richard Nixon che intendeva così risanare il bilancio degli Stati Uniti. [21] Qualunque fosse stato il loro ruolo, la cosa certa era che gli americani avevano violato i tanto decantati principi di democrazia e di libera concorrenza e favorito il rinnovamento dell’alleanza delle forze politiche con la yakuza, la cui presenza era ormai diventata necessaria per assicurarsi i seggi elettorali.[22]

 


[1] Walter AMES, op. cit., pp. 105-148.

[2] Frank F. Y. HUANG and Micheal S. VAUGHAN, op. cit., pp. 19-57.

[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Harumi BEFU, op. cit., pp.445-456.

[6] Walter AMES, op. cit. p.127.

[7] Shigeru BOZONO, Yakuza on the Defensive, “JQ”, January-March 1998, pp. 79-86.

[8] Ibidem.
[9] Bruce A. GRAGERT, op. cit., pp. 180-182.

[10] Robert DELFS, Japan: Feeding on the system: Gangster Play Increasing Role in Business and Politics, “Far Eastern Economic Review”, Hong Kong, 21, Nov, 1991, Vol. 154, N. 47, pp. 28-29.

[11] Tom GILL, Streetwinter, Tōkyō, “Tōkyō Business Today”, April 1994.

[12] Robert DELF, Smoking Guns, “FER”, Dec., 2, 1992, pp. 18-20.

[13] Kennet SZKYMKOWIAK, Sōkaiya: An Examination of the social and Legal Development of Japan’s Corporate Extortionist, “InternationalJournailoftheSociologicalLaw”, 1994, Vol., 2, pp. 123–143.

[14] Kennet SZKYMKOWIAK, Sōkaiya Criminal Group and the Conflict for Corporate Power in Postwar Japan, “Asian Profile”, Vol. 20, N. 4, pp. 297–308.

[15] Idem.
[16] Idem
[17] TAKU MURATA, Corporate Shadow Artist, “TBT”, Oct., 1994.

[18] BALDWIN FRANK, The Idiom of Contemporary Japan, “JI”, 8, Winter 1974, pp. 502-509.

[19] Hans H. Baerwald, Lockheed and Japanese Politics, “AS”, Vol., XVI, n. 9, 1976, pp. 817-829.

[20] Rei SHIRATORI, The Lockheed Affair: A second Look at Democracy, “Japan Echo”, Vol., III, N. 2, 1976, pp. 23-30.

[21] Hiroshi IMAZU, Power Mosaic: Hotbed of the Lockheed Case, “JQ”, Vol., XXIII, N. 3, July, 1976, pp. 228-237.

[22] Rei SHIRATORI, art. cit., pp. 23-30.