Codice-Cavense
Codice-Cavense

Le donne della Langobardia minor

Nelle carte salernitane dei secoli antecedenti il Mille, la presenza femminile è costante. La donna, infatti, partecipa attivamente alla vita economica e sociale del principato, presenziando spesso alle compravendite in veste di venditore o di acquirente, e a volte anche di testimone, sempre entro i limiti imposti dalla legge longobarda.
Ella era sottoposta al mundio, potestà perpetua esercitata solitamente dal padre, e dopo di lui, per successione, dai fratelli, dai figli, dal marito o, in casi estremi, dal sovrano. Alla stregua insomma di vecchi e bambini, la donna rientra nella fascia dei più deboli, degli indifesi tutelati dal legislatore. Questa immagine della donna “muta” mal si accosta però al ruolo economico e sociale che traspare dalla documentazione.

Il ruolo economico del patrimonio femminile
Nel Mezzogiorno longobardo, la proprietà della donna concorre alla frammentazione del patrimonio familiare. Quello che intacca per primo è quello della sua famiglia, nel momento in cui abbandona la casa paterna per la nuova dimora coniugale, portando con sé la dote datale dal genitore, destinata allo sposo. In cambio, il padre della sposa riceve dal genero il meffio, o meta, costituito prevalentemente da monete o altri oggetti preziosi, come era nella consuetudine longobarda.
Nel Codice Cavense il meffio è menzionato un’unica volta in un memoratorio del 972. Qui è testimoniata la consegna del morgengabe alla sposa e sette tarì d’oro, che Giovanni di Forino, accetta a titolo di meffio, da parte del genero, Amato di Avellino.
Alle donne spetta invece il morgengabe, dono del mattino, consegnato dallo sposo dopo la prima notte di nozze. Con questo la sposa diviene proprietaria di parte delle sostanze del marito, di solito in misura di un quarto o di un ottavo, come stabilito dalla legge di Liutprando del 717 e confermata da quella di Adelchi di Benevento nell’866.

Il dono del mattino
La cessione del morgengabe era solitamente rettificata con un atto notarile. La documentazione salernitana ci offre solo quattro esempi di tale pratica, mentre più numerose sono le notizie di offerte o vendite dei doni del mattino.
La prima notifica di morgengabe è contenuta nel memoratorio del 792 che apre l’intera raccolta. Nella carta, scritta a Forino da Urso notaio, un abitante del luogo, di nome Alderisso, donò alla moglie la quarta parte della sua proprietà, comprendente una curte, con terra colta ed incolta, oltre ad alcuni edifici e ciò che contenevano.
Per avere testimonianza di una seconda cessione di morgengabe tramite atti notarili è necessario attendere fino alla metà del secolo X, quando le notifiche dei doni di nozze si fanno più numerose, essendo più nutrita la documentazione. È del 933, infatti, il memoratorio scritto a Salerno, con cui Adelperto detto Cicero, dona alla moglie Maria la quarta parte delle sue sostanze, davanti a parenti ed amici, “secundum ritus gentis nostre langobardorum”. Tale parte rimarrà di proprietà della donna in perpetuo, come garantisce l’atto scritto che fa esplicito divieto al marito e ai suoi parenti di avviare requisizioni.

Le promesse degli sponsali
Il matrimonio longobardo era un vero e proprio contratto tra i parenti della sposa ed il futuro marito. Ne è un esempio il memoratorio del 937 che notifica l’unione tra Adelperto e Maralda. Il padre della sposa, Giovanni, consegna al futuro genero la wadia, mentre questo si impegna a consegnare a Maralda la quarta parte dei suoi beni. Se mancherà all’impegno, Adelperto sarà obbligato a versare al padre della sposa cinquanta solidi costantiniani, mentre se deciderà di non prenderla più in moglie, dovrà restituire la wadia e aggiungere venti solidi o, in mancanza di denaro, pignorare ciò che possiede. Una clausola dello stesso contratto prevede che nel caso fosse la donna a sottrarsi all’impegno preso con il suo uomo, peccando o essendo rapita, la sua famiglia dovrà lasciare al marito una parte delle sue proprietà. Così scrivono i due notai, padre e figlio, davanti ai mediatori delle due parti, i fratelli Wisone e Andrea.
Una diversa clausola è contenuta in una carta del 947, dove Ragimperto, monaco, dona alla figlia e al genero tutte le sue sostanze, a condizione che in caso la figlia Adelchisa morisse prima del marito Pietro, due parti della donazione torneranno a lui medesimo oppure ai suoi eredi. Pietro si impegna a rispettare tale patto accettando il launegild (camiso uno) ed un’eventuale pena di 10 solidi costantiniani. L’attenzione rivolta alla dote delle donne, qui riscontrata, lascia pensare che questa non fosse irrilevante, almeno in questi casi.

L’integrità della proprietà femminile

Una volta donato, il morgengabe diviene parte integrante del patrimonio della donna. La legge prevede, infatti, che alla prematura scomparsa del marito la consorte mantenga i diritti di proprietà sulla sua quarta parte, come ricordato nel memoratorio di Forino del 792.
La donna salernitana sembra mantenere inalterati i suoi diritti anche nel caso di seconde nozze, come vediamo nel caso di Ermeperga che nell’853, dopo essere stata interrogata dallo sculdascio Lupo, vende con il consenso dei suoi mundoaldi e del marito Ragemfrid, la quarta parte ricevuta dal primo marito, Daciperto. Mentre, in un documento redatto a Nocera nel 954, i beni ricevuti da Gemma, figlia di Maurone, dal primo marito, sono confermati dal padre di quest’ultimo, Maghenolfo di Nocera. Si tratta di una terra vicino al bagno pubblico, equivalente alla quarta parte delle proprietà del primo marito Richardo. Dopo la scomparsa di Gemma, avvenuta un anno dopo, la sua terra è amministrata dal secondo marito che l’affitta per dieci anni, forse nell’attesa del raggiungimento della maggiore età dei figli di Gemma cui spetta il patrimonio della donna.
Un caso simile è quello di Richarda, figlia di Gaidenardo, che in fin di vita decide di offrire tutte le sue sostanze alla chiesa di San Marcello di Nocera. La donazione includeva la quarta parte ricevuta dal primo marito, per la quale chiede l’assoluzione dei tre figli avuti da questo, e la quarta parte delle sostanze del secondo marito, riscattabile dai figli di quest’ultimo entro tre giorni dalla morte della donna.

Le vendite dei “morgengabe”
La donna longobarda dunque può contare su una sicura base economica, rappresentata dal morgengabe. Essa è libera di gestire i sui beni come meglio crede, purché ottenga il consenso dei mundoaldi chiamati a dar voce alla sua volontà.
Un caso tipico dell’intervento dei mundoaldi è rappresentato proprio dalla vendita della proprietà femminile. La formula di redazione di queste ultime nelle carte cavensi è sempre uguale: dopo la presentazione della donna e dei suoi mundoaldi, è detto che nessun uomo ha fatto pressione o violenza su di lei per indurla a cedere i suoi beni. La sistematica ripetizione di tale affermazione in tutti gli atti di vendita di morgengabe, oltre ad essere parte di un formalismo notarile, potrebbe indicare invece che questa fosse una pratica molto diffusa. Infatti, nel secolo successivo la forma di redazione cambia, non essendo più ventilata alcuna ipotesi di costrizione. Non può certo sfuggire però che per questo secolo, maggiormente documentato rispetto al precedente, le vendite di morgengabe subiscono un forte calo, solo cinque contro le ventuno del secolo precedente.
Sembrerebbe quindi che le vendite dei patrimoni femminili coincidano con gli anni di espansione dei medi proprietari fondiari impegnati ad estendere i propri confini, appunto nel corso del IX secolo, durante gli anni di crisi delle campagne salernitane messe a dura prova dalle scorrerie saracene. È da considerare che la proprietà della donna rappresentava invece un’incognita per tali progetti, in quanto poteva sottrarsi all’alienazione dei beni del marito e dunque mantenere la sua pars dentro un patrimonio altrui. In questi casi è legittimo pensare ad una pressione da parte del proprietario della terra circostante che, con la complicità dei familiari della donna, riusciva spesso ad avere la meglio.
In ogni caso, non mancano vendite dell’intero patrimonio fatte dai due coniugi di comune accordo, come vediamo da due carte della metà del secolo IX, in cui due donne, Audiperga e Bonetruda, partecipano al fianco del marito alla vendita dei beni di famiglia. Anche se più spesso invece la vendita dei morgengabe segue in ordine di tempo quella del marito, completando dunque l’alienazione dell’intero patrimonio, come fanno Orsa, Cussiperga, Roctruda e Wiletrude che figurano come attrici di vendite destinate a proprietari di terre confinanti. Gli stessi che, profittando delle difficoltà del periodo, la guerra interna al ducato e le scorrerie saracene, estendono i propri confini, inglobando proprietà più piccole, spesso irraggiungibili dai proprietari che risiedevano in città, come conferma una carta dell’855, in cui una tal Locerna, rifugiatasi a Salerno, vende “pro mei necissitatibus” ciò che le pertiene ad Andrelle, vicino alla capitale, per trentacinque solidi d’oro ed ancora, nell’882, Rodelenda, moglie di Polcaro, vende la sua parte affermando “ut ego biberem possam”.
La maggior parte delle donne che vendono il proprio morgengabe sono vedove, come Fredemperga, che dopo la morte del marito Amsfrid vende ad Aleprando la sua quarta parte tra Rotalo e Benevento, vicino al fiume Sabato, per ben venti solidi di domno sicardo.
Spesso riservano per sé una parte delle proprietà dove continuare a risiedere, come Wiseltrude, nell’848, che riserva per sé una casa con ciò che si trovava all’interno ed una terra, escludendola dalla vendita del suo morgengabe, costituito da terra ed edifici con “circoitum cortibus et ortalibus”. Altre donne, invece, incrementano il loro patrimonio con beni ereditati dai familiari, come ad esempio si legge nella vendita di Inelgisa che, nell’869, vende ad un tal Potenando la parte ereditata dal padre a Misciano o ancora nella cessione della monaca Ametrude, che aggiunge alla sua parte i beni del figlio, morto senza eredi.
Nel secolo seguente diminuiscono le vendite di morgengabe, come in generale diminuiscono le compravendite. Le carte di questo periodo sono in prevalenza giudizi e locazioni, che solo raramente interessano la proprietà femminile.
Nella seconda metà del secolo sono più frequenti le offerte ad enti ecclesiastici o donazioni a privati come il caso dei coniugi di Valneo, nei pressi di Avellino, che nel 956 donano parte delle loro sostanze ad Andrea figlio di Loperisso, o quella di Risa, vedova del chierico Martino, che nel 960 dona l’intero patrimonio ereditato dal padre al genero Andrea.

Le donne e la famiglia dello sposo
Il ruolo assunto dalla donna all’interno della famiglia del marito, si può intuire dal testamento del presbitero Angelperto, appartenente alla famiglia di Selberamo di Agella e abate della chiesa di San Massimo.
Il presbitero nel 903 designa sua erede la cognata Sica, vedova del fratello Giovanni, lasciandole la metà delle sue sostanze. Sica diviene così amministratrice dei beni della famiglia del marito, che sappiamo considerevoli. Al suo fianco nella gestione del patrimonio, un’altra donna, la vedova del terzo fratello, Leomperto, come vediamo da un giudizio di due anni più tardi in cui una parte delle proprietà di famiglia era contesa da un certo Madulo.
Nel 966, altre due donne hanno la gestione di un patrimonio, costituito da due appezzamenti divisi in comune con la chiesa di San Massimo, che in questa data permutano con la stessa chiesa con l’equivalente in altro luogo.

Il testamento di Littoso
Il ruolo della donna, dentro e fuori la famiglia di appartenenza, è dunque innegabile e ulteriore conferma trova alla lettura del testamento di Boso, soprannominato Littoso, che nel 968 in punto di morte, affida alla moglie tutte le sue sostanze, da amministrare e preservare per le due figlie ancore minorenni Marlsenda e Letizia. Queste una volta maggiorenni, si legge, divideranno la loro parte con gli altri fratelli, mentre alla madre resterà il rimanente, equivalente alla metà dell’intero patrimonio.
Iaquinta dunque non è solo l’erede patrimoniale del marito, ma anche l’erede testamentaria; a lei, infatti, spetta di vigilare affinché le volontà del marito siano rispettate. Condizione imprescindibile a ciò, è che ella segua il dettame del marito: “dum lectum meum custodierit et non nupserit”. In caso di seconde nozze dunque le rimarrebbe il solo morgengabe, anziché la metà dell’intero patrimonio.
Inoltre le carte lasciano intravedere una donna longobarda attiva nella gestione del suo patrimonio, come testimonierebbero le menzioni di acquisti a nome di donne, presenti, anche se in numero esiguo, nella documentazione salernitana e nelle menzioni di donne proprietarie tra i confinanti.
Dall’analisi della documentazione cavense emerge quindi una donna salernitana impegnata nella vita familiare, con un ruolo importante entro la gestione e la custodia del patrimonio. Una donna, quella meridionale, che gode di indipendenza economica garantitale dalle leggi, ma in seguito avversata dalle stesse come farebbe intuire una novella di Arechi II di Benevento. La dodicesima novella del principe beneventano denuncia il comportamento scandaloso di alcune donne, dette spregiativamente mulihercole, che approfittano della vedovanza per concedersi liberi costumi in pubblico. Queste, si legge nella novella, indossano l’abito monacale “per non sopportare il vincolo delle nozze, giacché ritengono che ogni cosa sarà sicura se non si sottopongono all’autorità coniugale”.
Tale comportamento, definito dal principe pestis execranda, è punito con il pagamento del guidrigildo, ossia del valore stabilito per ogni individuo in base alla sua posizione sociale, al palazzo e l’immediata entrata nel monastero con il medesimo guidrigildo e tutti i beni personali. Di ciò si deve far carico chiunque sia a lei legato da parentela e rimandi la sua entrata in convento per più di un anno dal voto.
Un duro veto morale che potrebbe nascondere dietro la preoccupazione della licenziosità dei costumi, l’intento di far rientrare grosse parti di patrimonio nelle mani delle famiglie, impotenti davanti a donne che, consce della loro indipendenza economica, non rispettano i costumi della comunità, soprattutto quando si tratta di affidare le proprie ricchezze e la propria libertà ad un secondo tutore.
La velatio permetteva infatti alle vedove di continuare a risiedere nella propria abitazione, ma soprattutto la formale sottomissione all’autorità religiosa permetteva loro di sottrarsi di fatto alle pressioni dei gruppi parentali o d’acquisto.

FONTI
• Chron. Sal. “Chronicon Salernitanum”. A critical edition with studies on litterary and historical sources and on language, a cura di U. Westerberg, Stockolm 1956.
• CDC.Codex diplomaticus Cavensis, a cura di M. MARCOALDI, M. SCHIANI, S. DE STEFANO, voll. I-II, Mediolani-Pisis-Neapoli 1873-93.
• Erch. ERCHEMPERTO, Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. WAITZ in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878, pp. 241- 264.
• Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. AZZARA e S. GASPARRI, Milano 1992.
• PD. HL PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, a cura di L. BETHAMANN-G. WAITZ in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum germanicarum in usum scolarum separatim editi, Hannoverae 1987 (= edd. Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878, pp. 12-187).
• PROCOPIO di CESAREA, La guerra gotica, a cura di D. COMPARETTI, in Fonti per la storia d’Italia, voll. I-III, Roma 1895-1898

Autore: Stefania Manni, stefania.manni@storiadigitale.it

Langobardia minor di Stefania Manni è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
tratta da: La società della Langobardia minor tra VIII e X secolo: l’esempio di Salerno Tesi di laurea A.A. 1998-1999. Prof. Stefano Gasparri, Laurea in Storia  – Università Ca’ Foscari di Venezia.